Napoli, 1° ottobre del ’43.
Si sono concluse le “4 Giornate” e Napoli è ormai libera dai nazisti, quando entrano gli americani che sino ad allora – e chi glielo faceva fare di muoversi prima? – avevano aspetta-to a Salerno. E i napoletani, come ottantatre anni prima con Garibaldi e le sue truppe, li accolgono con fiori e applausi, raggianti di felicità.
Pensano che finalmente ’a nuttata è passata, come dirà poi Eduardo nella sua Napoli milionaria.
Napoli è quasi del tutto distrutta. Senza viveri, senza economia alcuna diventa, in pratica, una colonia americana. Dagli americani è costretta ad accettare le AM-LIRE, la moneta battuta dagli occupanti, non essendoci uno Stato legittimato a farlo; ma mangia volentieri le tavolette di cioccolato, mai viste prima di allora donate dalla MP – Military Police che continuamente, notte e giorno, pattuglia la città per evitare che i propri soldati, magari ubriachi, vengano a contatto con la popolazione – e fuma con voluttà le sigarette (famosissime quelle conosciute col nome di‘o viecchio cu ‘a barba‘ e le “Camel”, con l’immagine del gobbuto animale). Il mercato nero, già presente sin dall’inizio della guerra, diventa necessità quotidiana per chi lo fa e chi vi ricorre. È l’unico modo, per chi ha qualche lira, per mangiare un po’ di carne e bere un po’ di caffè al posto della ‘povere ‘e pesielle‘ e dei vari surrogati.
Chi non ha mezzi non può che sopravvivere con quello che passano le tessere annonarie; o morire se a mancare sono le medicine. È il momento dei grandi guadagni e dell’accumulo di grandi fortune, per chi ne è capace, che dureranno anche dopo per molti anni.
Dalla sera alla mattina, incontri il verduraio ieri al mercato in biroccio, oggi in macchina lustrata a dovere; o la moglie del macellaio ieri vestita di stracci, oggi in pelliccia e piena d’oro: roba per chi ha pochi scrupoli o molto coraggio da infischiarsene della legge. Come gli usurai, ad esempio, che a centinaia proliferano e tutti fanno affari: come i migliaia di “compro oro” che oggi, quasi ottant’anni dopo, come funghi sono in tutte le nostre città. Ma è anche il momento peggiore, del tirare a campare per i disoccupati, i senza tetto, i reduci: è la crudele lotta combattuta tra poveri. La maggior parte della popolazione si nutre con cento grammi di pane di segale a testa, di patate, di cavoli, di castagne spezzate (quelle secche e dure che venivano ammorbidite nell’acqua); l’olio è un lusso e a condire le minestre, suppliscono robuste e pelose cotiche di maiale.
Napoli inventa o riscopre mille mestieri. Oltre quello antichissimo delle segnorine – che ora è richiestissimo e fa grandi introiti – c’è l’ammaestratore di cani e scimmie, il mangiatore di fuoco, il pazzariello, antesignano degli attuali spot pubblicitari; c’è chi fa le tre carte – questa perde e questa vince! – il testimone al municipio o all’ufficio leva, e chi ti organizza una riffa con quattro bottiglie di vermouth annacquato. I bambini, gli ex scugnizzi delle “4 giornate”, fanno gli sciuscià o le guide dei soldati, diventandone spesso amici; le madri e le mogli, si arrangiano con il contrabbando di sigarette e sennò, diventano segnorine. Perché gli uomini hanno le braccia, ma non c’è lavoro, e le donne, invece, ciò che hanno vendono. E le scorgi, ad ogni angolo, queste disgraziate, di ogni età, attaccate addosso a questi omoni, di ogni colore, con le patte aperte, che si danno da fare, con lingua, faccia e resto, sino a soddisfarli, in cambio a volte nemmeno di soldi, ma di un paio di calze di nylon, di una tavoletta di cioccolato, di una stecca di sigarette che corrono subito a vendere al mercato nero.
È la Napoli neorealista di De Sica, Rossellini, De Filippo e della “pelle” di Curzio Malaparte quella che vive, in quel periodo, nei vicoli, nelle vie e nelle piazze. La Napoli di Dove stà Zazà e di Tammuriata nera a ricordare i tanti stupri subiti nell’animo, negli occhi, nella mente.
Una mente che ora si rianima a quei ricordi di quando avevo sette, otto anni.