Nel mio libro Appunti critici (2002) ho riservato una appendice dedicata esclusivamente ai poeti in dialetto intitolata L’Anti-modernismo; ed una ragione c’era, indiscutibilmente chiara se pensiamo alla produzione di poesia nei vari dialetti italiani durante il decennio degli anni ottanta e novanta che, sicuramente, ha raggiunto esiti convincenti, anche magari superando di una spanna, mediamente, la coeva produzione nella lingua nazionale. Albino Pierro era stato un pessimo maestro ed aveva impartito alla scuola di poesia dialettale italiana una lezione di dubbio spessore critico-culturale legittimando una poesia del ritorno al borgo natìo, avvolta nella nube del presentimento della morte e condita con il ritorno all’infanzia; il tutto con il corrispettivo di un dialetto impervio, dagli accenti sghembi e dalla sonorità strozzata.
Era nato un nuovo modello, un nuovo parametro dell’ipocrisia e del conformismo nazionale, stavolta, però, con segno invertito, sotto i labari e le insegne della poesia neo-dialettale. Che poi Pierro fosse un mediocrissimo poeta in lingua italiana e che invece fosse salutato come il toccasana della poesia in vernacolo, è cosa che sarebbe da chiarire finalmente e fino in fondo.
Ma, per tornare al nostro assunto, il fatto che la poesia in dialetto risenta, per motivi di contrasto, dell’influsso del modello di poesia in lingua nazionale e dei suoi parametri stilistici, non toglie che all’interno della vasta produzione dialettale non si possano rinvenire delle operazioni di autentico interesse. Ma qui veniamo al punto cruciale: che tipo di poesia è quella dialettale? Deriva da un momento di “debolezza” della lingua della nazione, o di “forza”? E questa fioritura novecentesca ha altre fonti? È rivolta ad altri approdi? La tesi di chi scrive è che la poesia in dialetto deriva da un duplice ordine di ragioni: in primo luogo, dalla tendenza alla globalizzazione dei linguaggi poetici delle varie lingue nazionali sotto la “supervisione” della lingua egemone e maggioritaria: l’inglese; secondo questa ipotesi l’inglese costituirebbe un autentico polo di attrazione per tutte le lingue nazionali, una sorta di centro di gravità su cui ribasare tutti gli altri linguaggi poetici; in secondo luogo, deriva dalla tendenza alla specializzazione della lingua italiana maggiormente adatta alla formulazione di un discorso poetico in cui prevalgano le istanze della modernizzazione dei linguaggi.
In sostanza, al dialetto sarebbe riservata la zona dei linguaggi “parlati”, degli idiomi municipali con annessa la zona del pensiero metaforico e analogico. In questa sorte di divisione del lavoro tra la lingua della nazione e le lingue delle “periferie”, si sostanzia la diversificazione tra le due diverse tipologie di poesia, ancorché avvenga nella lingua di Dante o che avvenga nelle lingue in dialetto. E qui veniamo all’assunto dell’anti-modernismo. Secondo questa tesi, le scritture poetiche in idioma che derivano dalla poesia di Pierro rivelerebbero in modo consapevole o inconsapevole l’attrazione verso un centro di gravità ancipite rispetto a quello della poesia in lingua italiana.
Innanzitutto, la “solidità” della costruzione della migliore poesia anti-modemista priva dei “collanti” novecenteschi che hanno intorbidato e inquinato la poesia italiana del Novecento, priva di ideologizzazioni che hanno invece intorbidato la coeva poesia italiana e, priva, soprattutto, della tensione spasmodica verso il “nuovo” che ha attanagliato e tuttora attanaglia la coeva poesia in italiano.
La poesia neo-dialettale ha il pregio e il limite di non riconoscere il tormentoso problema di scrivere poesia nell’epoca della globalizzazione, il problema della colpa di essere sopravvissuti a quella orribile barbarie da cui la poesia proveniva e a cui tornava inesorabilmente. Tutta la poesia neo-dialettale sconosce il tormentoso problema del Moderno, con tutto ciò che ne consegue, essa è libera ed ingenua, parla la lingua adamitica di Adamo ed Eva, la lingua degli uccelli della domenica di benjaminiana memoria, è nata da appena due decenni, è venuta dopo il diluvio della globalizzazione e quindi non ha colpe e, soprattutto, non può essere tacciata di collusione o di “collaborazionismo”, di “impegno”, o di “orfismo”, ecc. Essa è libera, può andare dove vuole. Ma qui si cela la prima aporia. Non dobbiamo cadere nell’illusione che la poesia neo-dialettale possa andare dove vuole o dove meglio le aggrada, la poesia neo-dialettale ha una sola direzione di percorrenza che persegue da tempo senza timori o ambasce: la via dell’anti-modernismo che si presenta con i tratti dell’arcaicità, priva o quasi di parlanti, priva di un retroterra extra municipale, e quindi di una propria letteratura, priva di un destinatario (nel senso di una comunità di parlanti-lettori), e infine, priva di un futuro, perché il futuro appartiene alle lingue che verranno, ovvero alle lingue che parteciperanno alla globalizzazione: nel nostro caso all’italiano.
La poesia neodialettale di Enrico Del Gaudio è “un viaggio nella Storia, dal dopoguerra ai nostri giorni, attraverso la poesia napoletana”, come recita il sotto titolo del volume, appartiene a buon diritto e a pieno titolo alla poesia postmodernistica di oggi e la dobbiamo collocare in questo contesto storico. Dal punto di vista sovrastrutturale, agisce in senso contrario alla modernizzazione del paese, offrendo una poiesis legata ad uno stadio arcaico e pre-moderno antecedente la seconda e la terza rivoluzione industriale; dal punto di vista lirico e intimistico intende apparire quale “voce autentica”, legata al “primigenio” e all’ “originario”.
In questa contraddizione la poesia di Del Gaudio vive, anzi, trae la propria ragione d’essere. Del resto, tutta la poesia erede del modernismo oggi in Occidente, e tanto più la poesia in dialetto, può prosperare solo a ridosso delle proprie contraddizioni e antinomie storiche e prendere forza e vigore da quelle antinomie. La stessa struttura ritmica e la calibratura tono simbolica e fonosimbolica della poesia di Del Gaudio stanno lì a dimostrare la legittimità di un percorso asintomatico e conflittuale rispetto al percorso della poesia in lingua maggiore.
Il volume contiene anche la traduzione delle poesie in napoletano nei vari linguaggi siciliani quasi a volersi porre come nuovo modello poetico, in tal senso è interessante seguire il lavoro dei vari traduttori quasi che la lingua dell’autore fosse una lingua nazionale; e in effetti lo è, il napoletano di Del Gaudio si pone consapevolmente come un super idioma, un super linguaggio idiomatico.