Moravia era convinto che “poeti ne nascono tre quattro soltanto in un secolo”, riferendosi ovviamente ai grandi poeti nazionali. E, se guardiamo alle storie e alle antologie della letteratura italiana, nella fattispecie, non possiamo dargli torto.
Giorgio Bárberi Squarotti, poeta (si veda l’edizione completa delle sue poesie in Dialogo infinito, Genesi Editrice, Torino 2017) e critico di poesia contempo-ranea (basti considerare I miti e il sacro. Poesia del Novecento, Pellegrini, Cosenza 2008), d’altra parte, nel rammaricarsi per la profluvie dei poeti contempo-ranei, condannava, giustamente, “la stoltezza e la presunzione” di moltissimi di loro, aggiungendo che “di metrica e ritmo non sanno nulla” e affermando che “sono degni di lettura soltanto se hanno la consapevolezza dei loro limiti, con ironia e un po’ di gioco e divertimento” (in La quarta triade, Spirali Edizioni, Asti 2000). Tesi difficilmente contestabile, peraltro.
E intanto, per restringerci nel nostro orizzonte, bisogna prendere atto di una sorta di rivoluzione verificatasi nel costume letterario di Messina, dove, da qualche decennio in qua, fioriscono poeti in abbondanza (io stesso ho avuto modo di “battezzarne” alcuni nel mio Resistere a Messina): quanti mai si erano registrati, invero, nei decenni precedenti. Ora, si potrà legittimamente ritenere che si tratti di poeti minori, che non avranno il grande successo critico ed editoriale dei maggiori. Ma nessuno negherà che siano poeti. E che esistono.
Certo, un critico onesto, che si trovi, per avverse congiunture, a vivere in provincia, sperimenta abitualmente, nella sua pratica di lettore di poesia, ambedue le condizioni suddette: il pacere sommo – che è anche un privilegio – di dialogare con i testi dei “tre quattro” poeti (grandi) amati da Moravia e la vocazione, quasi rabdomantica, di leggere e possibilmente incoraggiare qualcuno della suddetta profluvie (bollata giustamente da Bárberi), vituperando sempre “la stoltezza e la presunzione” di molti (quante “primedonne” di ambo i sessi!), ma apprezzando la “consapevolezza” dei limiti e la connessa “ironia” di pochi.
Ebbene, alla lista già folta dei poeti minori messinesi, in lingua e in dialetto, si aggiunge ora, senza meno, egregiamente, José Russotti.
La sua raccolta di poesie, Brezza ai margini, appena pubblicata a Messina, nelle Edizioni dell’Associazione Museo Mirabile di Marsala, si presenta, d’abord, con le credenziali giuste al pubblico dei lettori: oltre alla corretta impaginazione, alla puntualissima, acuta prefazione di Angelo Maugeri e alla brillante postfazione di Tommasa Siragusa, vanta anche una nota calibratissima di Carla Cenci e la recensione davvero esaustiva di Franca Alaimo.
Russotti è, invero, un tipico poeta contemporaneo, avvertito cioè, da un lato, delle oggettive conquiste metriche e stilistiche della poesia protonovecentesca (è palese, nelle sue liriche, la lezione ungarettiana e lorchiana, nonché a ritroso, quella dei poètes maudits) ma aperto, dall’altro, al nuovo, al superamento, in ispecie, delle strettoie ermetiche, e quindi alla dimensione sociale, progressiva del messaggio poetico: vi si colgono, infatti, agevolmente,anche echi della poesia di Quasimodo, di Pasolini e di Cattafi, quantomeno. Certo, egli usa il verso libero e privilegia, come gli ermetici, un lessico vago, imprecisato (forsanche con qualche oscurità superflua) e immagini più allusive che semanticamente esaustive, ma mira, nel contempo, alla comunicazione, alla leggibilità, e quindi alla poesia antiermetica, “corale”, per dirla con Quasimodo appunto: un dualismo metrico-stilistico, difficilmente gestibile, peraltro.
Si direbbe, ad ogni modo, che in Brezza ai margini prevalga la vocazione lirica del Mavvagnoto, evidenziata anche dall’invadenza, nelle sue poesie, della voce di un “io poetante”, che si agita perennemente tra il desiderio di vita e l’ansia-paura della morte, tra l’amore (coniugale) e il disamore, tra il dolore di orfano-esule e la speranza di un risarcimento sociale.
In almeno cinque componimenti della raccolta (XIII, XIV, XV, XX, XXI), si appalesa, tuttavia, come vedremo, una decisa componente sociale della poesia di Russotti, che assume connotazioni e vibrazioni di stampo quasimodiano, pasoliniano e perfino cattafiano, come dicevamo.
Le prime cinque liriche della prima sezione, Amare è vita, sono stabilmente imperniate sulle volizioni, i pensieri, le angosce di un io poetante tuttavia speranzoso, che avverte nel “silenzio dell’erba” il grido di dolore di chi nei “vicoli stretti del presente” non trova più “la porta di casa”, o soffre per il vuoto degli assenti, o rievoca nella “bolgia infinita della sera” le intrepide illusioni mancate o si conforta sapendo che come per incanto sorgerà “il sole del mattino”, o cerca un conforto frugando “nei vicoli della memoria”.
Seguono tre liriche (VI, VII, VIII) imperniate sulla tecnica allocutiva dell’ io/tu, che costituiscono autentiche invocazioni d’amore alla moglie: accolga lei, “nelle pieghe del suo dolore”, le lacrime del suo uomo; la sua mano non si stanchi di dare al poeta “un senso di raro sollievo” (degno di attenzione l’intenso distico: Me lo sento addosso/ il tuo odore di femmina e madre); lei, sicuramente, saprà “aprirgli il cuore”, se l’amore dovesse affievolirsi: la sensualità del distico Se dovessi frugare nel van / del tuo ventre acceso scavalca in bellezza quella dei modelli novecenteschi (avvicinandosi, forse, all’espressionismo cattafiano).
La tensione erotico-espressionistica si prolunga nella lirica successiva, in cui il poeta si prefigura che “Brandelli di lusinghe” e bocche sconosciute e intrepide /accenderanno il suo cuore / nella bolgia della sera (IX).
La decima lirica della raccolta è una dolorosa, ma stilisticamente compiuta, rievocazione della madre morta: il poeta cerca in casa ma “non trova più niente di lei”; il suo cuore “cade a pezzi”, ma egli aggiunge “una goccia all’origano nel vaso di suo madre” (il verso è davvero sublime) sperando che ritorni.
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La seconda sezione, Angoli bui nel silenzio, si apre con una lirica, la XI, in cui l’io poetante canta mestamente la morte del padre scomparso quando egli era in tenera età: L’assenza/ è un suono molteplice di arpe sulla riva/ […]. Al padre è anche ispirata la lirica XVII che forma con la XI un singolare dittico filiale.
Il dodicesimo componimento è quello più gonfio di crudo, corposo realismo, prossimo – parrebbe – ai moduli espressionistici della poesia di Cattafi: “la grandine sui tetti”, il “sangue dalla croce”, la “fame che divora le budella”, il gesto inconsulto/ di chi disperde il seme, il “vento tra la gramigna”, “lo sputo sui vetri”, il “vino rosso […] nello stipo”: brandelli, invero, di una vita vissuta tra stenti, lontano dagli agi, e tradotti in una tormentata musicalità.
Segue quella che si definirebbe «una trilogia della gente». Tre ampie liriche «corali», in cui il poeta, messo da parte il suo io dolente e risentito, guarda attorno a sé, divenendo quasimodianamente partecipe del dolore dei «fragili» che sono vessati e perfino uccisi dai potenti: gli emigranti, extracomunitari, in ispecie, vittime della brutalità della storia e i morti di Covid.In essi il poeta emigrante si identifica, a tal punto che, nella prima strofa, della XIII poesia, presta loro la sua voce e diventa di fatto uno di loro: Ci ha lasciato la madre che ci nutrì/ col latte del seno e sedano crudo (un distico sublime, invero). Nella lirica successiva, la «gente» (forse, i parenti dei morti per Covid) piange e stringe le ossa / dentro un fazzoletto intriso di memoria, e nella quindicesima il poeta “corale” registra accorato il “greve allinearsi delle bare” dei morti.
Della stessa temperie stilistica sono i componimenti XX e XXI, in cui lo stesso acceso espressionismo presiede alla visione dei corpi dei migranti che affondano, gonfi di sterile salgemma, mentre le barche approdano vuote: il poeta porge alla faccia stupita degli stolti/ un piatto ben condito di sapienza.
Nella lirica XVI, domina, tra illusioni e delusioni dell’io poetante, la noia di certe giornate disadorne, mentre lo sguardo cade sulla lumiera di carni putrefatte e scheletro (ancora di cattafiana memoria).
Seguono tre liriche (XVII-XIX) in cui ritorna la voce disillusa del poeta, che rifiuta ogni ipotesi consolatoria dell’aldilà (la morte è solo un gelido varco interiore/ nella vanità dissoluta del transito finale) e ridimensiona il ricordo, più o meno affettuoso, che di lui avranno i compaesani, agognando semmai l’infinità che solo l’arte può dare (vivere ancora e poi ancora/ e ancora, nel fertile cuore/ dei fragili), e guardando in faccia la morte “che scivola sul destino delle cose”.
La paura del disamore o meglio della fine dell’amore ritorna nella mesta lirica XXIII, che sembra costituire il pendant pessimistico del trittico alla moglie (della prima parte).Vi si collegano, per l’intonazione elegiaca, i due ultimi componimenti soffusi dalla malinconia del tramonto: ogni gemito divien / un tormento di rondini in pena.
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Josè Russotti è un poeta che patisce (o ha patito) immediatamente sulla sua pelle il dolore, la sofferenza, l’ingiustizia del mondo, approdando a una visione amara (ma non sconfitta), leopardiana se vogliamo, della vita e dell’arte: un uomo dimidiato, ad ogni modo, come un poeta medioevale, tra il sogno o il rimpianto del paradiso e l’amara certezza dell’inferno.
Il suo destino di poeta (grande o meno) è nelle sue mani: non dimentichi che non è vero poeta chi non legge tutti i poeti e che un poeta è grande se ha qualcosa di grande (di sublime) da comunicare, nei giusti moduli, ai suoi simili.