Figlio di un cappello (Montevarchi, 1933) |
Ero figlio di dita nodose ed occhi dal colore del cielo in cui si corteggiano cirri d’estate, di poche parole, pesanti quanto il ripetersi delle azioni, sempre le stesse, a sussurrare la vigilia fragile di un sogno nel suo comparire a rilento dagli incavi della vita, che serbavano il sudore del giorno e il digrignare costante del cuore a comporre rughe di rosari disattesi; ad un tozzo di pane corrispondeva la rinuncia ad essere donna e da donna ad essere madre, il dolore in bilico di un’ombra, la paura d’incespicare, il biancore dell’attesa sul labbro, orme a naftalina, e tutto annodato al filo indefinito della fame; l’arte d’imbastire si tramutava in variazioni di forma a levigare il confluire di un’ora in un’altra e la raccolta delle stagioni in un cappello. Conosceva, San Giacomo , forse, il silenzio dei nostri nomi? Ero figlio di un’abitudine zuppa d’acqua di pioggia, di un amore impagliato nell’avanzare di un fischio d’acciaio al richiamo della fabbrica madre a segnare l’istante imperfetto di un respiro o di un addio. Vivevamo in uno spazio nudo d’ossa al fumo dal colore di occhi rassegnati. |