La storia di Napoli ha inizio, secondo la tradizione, intorno alla metà del VII sec. a. C., con la fondazione di Partenope da parte dei Cumani. Sorta sulla collina di Pizzofalcone e l’isolotto di Megaride, il suo nome le deriva dalla Sirena eponima Parthenope, che ricollega la sua fondazione al mito omerico di Ulisse
Stabilire se Napoli è più antica di Roma è un’impresa ardua. Studi recenti, tecnologie avanzate e nuovi ritrovamenti archeologici, non hanno ancora dato una risposta certa, nonostante quella manciata di anni, dal 753 al 475 a.C., pare divida il momento fondativo delle due città. Ci si affida alla leggenda: da una parte Romolo e Remo e dall’altra la sfortunata sirena Partenope che muore piangendo Ulisse e l’Uovo di Virgilio, tuttora nascosto nelle fondamenta di Castel dell’Ovo.
Il momento esatto della fondazione di Napoli è avvolto quindi da incertezze e miti. Dai recenti reperti archeologici, testimonianze storiche e dai poeti e scrittori dell’epoca greco-romana, si arriva alla conclusione che i fatti siano andati verosimilmente così.
10 giugno 1940. È l’inizio della catastrofe. Mussolini porta l’Italia in guerra contro le democrazie plutocratiche e reazionarie dell’Occidente, con un discorso che cambiò la storia d’Italia
A quell’epoca, prima dello scoppio della II Guerra Mondiale, i mezzi di comunicazione erano i giornali, la radio ed i manifesti murali. Gli italiani, allora come oggi, avevano il difetto di leggere poco. Al massimo “La domenica del Corriere”, con la prima pagina, una vera opera d’arte, disegnata da Achille Beltrame e i due giornali sportivi, la “Gazzetta dello Sport” e il “Corriere dello Sport”. I bambini, invece, ridevano alle “avventure del Signor Bonaventura”, pubblicate sul “Corriere dei Piccoli”. Per il resto, se andava bene, come oggi un settimanale di pettegolezzi e cronaca rosa alla “grande fratello”.
Più seguita era, invece, la radio, presente in pratica in tutte le case degli italiani. Ad essa si alternavano Natalino Otto e Alberto Rabagliati, il Trio Lescano ed Ernesto Bonino nonché, con insistenza, la propaganda a favore del regime fascista e del suo Duce.
Allora, come oggi, i manifesti murali invitavano gli italiani che se lo potevano permettere, a bere “Campari soda”, ad andare in “Balilla” o in “500”, a spendere alla “Rinascente”, a comprare, perché non si poteva scaricare da Internet “se potessi avere mille lire al mese”, e ad andare al cinema a vedere Amedeo Nazzari che, insieme a Clara Calamai, furoreggiava nelle sale di tutta Italia.
Era un’Italia appiattita come la superficie limacciosa di un lago senza vento, intorpidita da anni di fascismo che l’avevano mano a mano resa sempre meno vitale e reattiva. Più di oggi divisa in classi, non soffriva però più di tanto la distinzione tra ricchi e poveri, né si entusiasmava alle conquiste militari in Africa ed Albania o a quelle sportive nei Campionati del Mondo di calcio del ’34 e del ’38. Più che Schiavio e Silvio Piola, affascinava Wanda Osiris, stella della rivista e, alla radio, Rabagliati quando cantava “vado, vinco, torno e sposo”, una canzone certamente voluta da Mussolini per attenuare l’abulia in cui erano caduti gli italiani.
Era, in pratica, un’Italia che viveva alla giornata, con un dissenso riservato ad una minoranza, adagiata nel sogno fallace dell’autarchia, propagandato ed imposto dal Fascismo, incurante di ciò che stava già avvenendo nel resto d’Europa.
Il risveglio, pertanto, fu più crudo e tragico. E furono Hitler e Mussolini che non trovarono di meglio, prima l’uno e poi l’altro, per dar sfogo alla loro sete di potere, che trascinare il mondo nella tragedia di una guerra che loro assicuravano circoscritta e breve ma che invece divenne mondiale e durò, dallo scoppio alla fine, più di cinque lunghissimi anni.