A piazza Venezia, 80 anni fa. L'italia entra in guerra

10 giugno 1940. È l’inizio della catastrofe. Mussolini porta l’Italia in guerra contro le democrazie plutocratiche e reazionarie dell’Occidente, con un discorso che cambiò la storia d’Italia


Il Duce dichiara guerra a Francia e Inghilterra, un popolo intero lo applaude ignaro del tragico futuro

A quell’epoca, prima dello scoppio della II Guerra Mondiale, i mezzi di comunicazione erano i giornali, la radio ed i manifesti murali. Gli italiani, allora come oggi, avevano il difetto di leggere poco. Al massimo “La domenica del Corriere”, con la prima pagina, una vera opera d’arte, disegnata da Achille Beltrame e i due giornali sportivi, la “Gazzetta dello Sport” e il “Corriere dello Sport”. I bambini, invece, ridevano alle “avventure del Signor Bonaventura”, pubblicate sul “Corriere dei Piccoli”. Per il resto, se andava bene, come oggi un settimanale di pettegolezzi e cronaca rosa alla “grande fratello”.
Più seguita era, invece, la radio, presente in pratica in tutte le case degli italiani. Ad essa si alternavano Natalino Otto e Alberto Rabagliati, il Trio Lescano ed Ernesto Bonino nonché, con insistenza, la propaganda a favore del regime fascista e del suo Duce.
Allora, come oggi, i manifesti murali invitavano gli italiani che se lo potevano permettere, a bere “Campari soda”, ad andare in “Balilla” o in “500”, a spendere alla “Rinascente”, a comprare, perché non si poteva scaricare da Internet “se potessi avere mille lire al mese”, e ad andare al cinema a vedere Amedeo Nazzari che, insieme a Clara Calamai, furoreggiava nelle sale di tutta Italia.
Era un’Italia appiattita come la superficie limacciosa di un lago senza vento, intorpidita da anni di fascismo che l’avevano mano a mano resa sempre meno vitale e reattiva. Più di oggi divisa in classi, non soffriva però più di tanto la distinzione tra ricchi e poveri, né si entusiasmava alle conquiste militari in Africa ed Albania o a quelle sportive nei Campionati del Mondo di calcio del ’34 e del ’38. Più che Schiavio e Silvio Piola, affascinava Wanda Osiris, stella della rivista e, alla radio, Rabagliati quando cantava “vado, vinco, torno e sposo”, una canzone certamente voluta da Mussolini per attenuare l’abulia in cui erano caduti gli italiani.
Era, in pratica, un’Italia che viveva alla giornata, con un dissenso riservato ad una minoranza, adagiata nel sogno fallace dell’autarchia, propagandato ed imposto dal Fascismo, incurante di ciò che stava già avvenendo nel resto d’Europa.
Il risveglio, pertanto, fu più crudo e tragico. E furono Hitler e Mussolini che non trovarono di meglio, prima l’uno e poi l’altro, per dar sfogo alla loro sete di potere, che trascinare il mondo nella tragedia di una guerra che loro assicuravano circoscritta e breve ma che invece divenne mondiale e durò, dallo scoppio alla fine, più di cinque lunghissimi anni.

Del resto, la guerra era nell’aria…

Chissà quante “Radiomarelli”, “Phonola”, “Magnadine”, “Geloso” c’erano nelle case degli italiani in quel 1940. L’Istat di allora non ce lo dice e Mussolini non poteva saperlo. Sapeva, però, che c’erano otto milioni di baionette. Aveva appena finito di contarle, egli stesso, ché non si fidava di nessuno, una ad una, prima di affacciarsi a Piazza Venezia, quel 10 giugno del 1940.
E forte di queste, di dieci divisioni al posto di settanta e di mille aerei al posto di tremila, l’Italiano, un popolo più imbelle che guerriero, si affiancò all’altro, quello germanico, certamente più avvezzo alle armi che al bel vivere, nella sicurezza che da lì a qualche mese - diceva il suo condottiero Mussolini - si sarebbe seduto al tavolo dei vincitori per accaparrarsi qualche lembo d’Europa o di Nord Africa. E rassicurava Pietro Badoglio, il riluttante capo di Stato maggiore generale “Mi servono poche migliaia di morti per sedermi al tavolo della pace, entro settembre sarà tutto finito”.

Il 10 giugno del 1940, dal balcone di Piazza Venezia, con le celebri parole ai "Combattenti di terra, di mare, dell'aria", Mussolini annuncia l'entrata in guerra dell'Italia. Convinto che il conflitto sarebbe stato vinto in breve tempo dalla Germania nazista, trascina il paese in una tragedia infinita che, di fatto, segnerà l'inizio della fine del suo regime che non sopravviverà alla guerra.


Non fu difficile, quel lunedì, zittire alla radio le canzonette in programma, né preparare Piazza Venezia al grande annuncio. Allora, nonostante la FIAT ce la mettesse tutta, sparuti erano gli italiani in “500” o in “Balilla”, e già più di un’ora prima, la piazza era tutta un inneggiare alla guerra ed al Duce. A vederli, sembrava che gli italiani avessero deciso che, da secoli pecore, valeva la pena di vivere un giorno da leone. E se c’era stato qualche tentennante o dissenziente dell’ultima ora, le squadre fasciste, più con le cattive che con le buone, ve l’avevano trascinato.
Che io sappia, nessuno della mia famiglia era a Roma, quel giorno. Del resto la guerra era nell’aria, attesa, e dalla radio non se ne aspettava che l’annuncio. Mio padre, mio zio Eduardo e qualche amico dello stabile dove vivevamo, vi si appiccicavano con l’udito teso, pretendendo silenzio tutto intorno, non appena tornati dal lavoro e quel lunedì 10 giugno 1940, alle ore 18 precise, le loro paure trovarono conferma. Mio padre che già aveva combattuto la I Guerra Mondiale, quella del 15-18, ritornò subito col pensiero a quegli anni ed immaginò cosa ci stava per succedere. Quel grido di “alle armi” e quell’imperativo di “vincere!” che pure io non udii, perché troppo piccolo, caratterizzarono ed influenzarono la mia prima infanzia.

Ora potete capire perche’ tuttora inglesi e tedeschi ci guardino con la puzza sotto al naso.
Hitler, ormai senza più freni, già dal marzo del ’39 sta minacciando la Polonia ed il 1° settembre, senza nemmeno avvertirla, la invade. La teoria del Fuhrer è che per dare inizio ad una guerra è sufficiente “una buona giustificazione”, anche se non plausibile. Al vincitore non sarà chiesto, dopo, se aveva detto la verità o no. Suppergiù ciò che accadrà, anni dopo, a Bush a Blair e a tutto l’occidente ai quali nessuno chiese conto dell’invasione, presentata come necessaria se si voleva restituire la pace all’Iraq di Saddam Hussein, che ne era feroce dittatore.
Così, con tale atto di forza, comincia la II Guerra Mondiale che inizialmente presenta questi schieramenti: Gran Bretagna e Francia dichiarano guerra alla Germania; Spagna, Svezia, Turchia e Stati Uniti si dichiarano neutrali, mentre la Russia, d’accordo con i tedeschi, partecipa alla spartizione dei territori polacchi. L’Italia, confermando ancora una volta l’atavico machiavellismo, si dichiara “non belligerante”. Una formula ambigua, paragonabile, oggi, “all’appoggio esterno” ad un governo del quale non si fa parte: mi tengo le mani libere da ogni impegno e decido quando mi fa comodo. Mussolini, in effetti, crede di fare il furbo. Muore dalla voglia di partecipare al banchetto dei vincitori - che ritiene ci sarà da lì a poco – ma, sapendosi impreparato militarmente, aspetta il momento di intervenire con “il minor sforzo ed il massimo risultato”.




Il giorno della follia collettiva e il delirio del popolo plaudente con il Duce a piazza Venezia








Ed infatti, la “cavalcata delle walchirie tedesche” è irrefrenabile: vengono attaccate ed occupate la Norvegia e la Danimarca; la Gran Bretagna è sotto pressione, il Belgio, i Paesi Bassi e il Lussemburgo sono invasi, la Francia sta per capitolare. È il momento che il novello Giulio Cesare attende: ora può accontentare l’insistenza del Tedesco e schierarsi al suo fianco correndo, quel 10 giugno del ’40, a gridare da Piazza Venezia che “la dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli ambasciatori di Francia e Gran Bretagna”. L’aveva fatto, mezz’ora prima, Galeazzo Ciano, Ministro degli Esteri, nonché genero del Duce in quanto marito della figlia Edda.
La piazza fu tutto un grido e un applauso scrosciante, l’entusiasmo si toccava con mano. La folla si era lasciata convincere dall’eloquio del Cesare dalla mascella di antico romano, ma per gli italiani delle città, delle campagne, delle fabbriche, delle officine non ci fu “una corsa alle armi”. Semmai a quella dell’esenzione o almeno ad adagiarsi nei servizi ausiliari, sicuramente meno pericolosi.

Ora, ai giovani d’oggi voglio dire che se è vero che stanno vivendo un momento triste e oscuro di prospettive future, in parte lasciato a loro dagli errori delle precedenti generazioni, almeno, e non è poco, non hanno vissuto gli orrori della guerra che ti inseguivano sino in casa. Oggi, Parigi, Berlino, Londra, Copenaghen, Oslo, Washington sono mète turistiche vagheggiate da tanti; allora erano le capitali di nazioni in guerra.

Posted

12 Jun 2020

Storia e cultura


Vittorio Fabbricatti



Foto dal web





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