Un romanzo di Francesca Luzzio
Leggendo il romanzo Michela ci aiuti di Francesca Luzzio mi è venuta in mente la nota commedia di Vittorio Bersezio Le miserie di Monsù Travet, che fu rappresentata per la prima volta nel 1863 al teatro Alfieri di Torino e poi edita in italiano con il titolo Le miserie del signor Travetti nel 1876
È stato un rimando della memoria nient’affatto insignificante. Infatti, se è vero che le vicende di Marco, il protagonista di Michela ci aiuti, non somigliano a quelle di Monsù Travet, da cui lo distanzia anche la tempra morale, però è anche vero che, come il personaggio di Bersezio, egli è vessato dagli altri e dal destino. Nel giro di poco tempo, infatti, si abbatte sul suo capo una serie di sventure: il tradimento della moglie, la perdita del lavoro, la morte della madre e quella dell’amatissima figlia Michela.
L’io lirico messo in campo da Maria Teresa Infante (Extrema ratio, Genesi Editrice, 2021) assume su di sé tanto elementi autobiografici che altri tratti dalla cronaca – in riferimento perlopiù al triste fenomeno del femminicidio – entrambi risolti in un linguaggio che mescola insieme concretezza e visionarietà in un accumulo di immagini, figure retoriche, tensioni espressive che rimbalzano verso il lettore, provocando spesso una reazione di stupore.
Tutti i testi sono attraversati da una bruciante condivisione del dolore e della solitudine che determina un’interiorizzazione degli eventi, narrati – come si legge nella motivazione della Giuria del Premio I Murazzi 2020 – lungo una rotta di interpretazione delle connessioni tra la psicologia della mente umana e la realtà delle cose".
I testi, benché titolati, sembrano entrare e uscire l’uno nell’altro, l’uno dall’altro, tanto sono assimilati dalla stessa voce dolente, dalla stessa necessità di sopravvivere, dalla minaccia della morte interiore e/o fisica.
Torneremo a guardare il mare di Maria Teresa Infante
Accade che la notte non si riesca o non si voglia dormire. E che tutti i pensieri viaggino nella mente, invadenti, inarrestabili. Dolorosi.
Maria Teresa Infante decide di metterli per iscritto indirizzando ad un’amica, lontana ma amata, delle lettere, investendo quel “tu”, a cui si confessa, di un ruolo assai più complesso di quanto possa sembrare, ché in esso innanzitutto si cela la necessità di guardarsi allo specchio, per chiarire a sé stessa un groviglio emozionale che non sopporta di rimanere all’interno di una solitudine, nella convinzione che dire ad un altro/a sia il modo migliore di sentirsi ancora viva e necessaria all’interno di una più vasta comunità. Soprattutto in un momento storico come quello che viviamo ormai da un anno, durante il quale, a causa dell’epidemia, la sensazione più diffusa è quella di una separazione dagli affetti, di una chiusura non solo spaziale ma anche mentale e spirituale.