Michela ci aiuti

Un romanzo di Francesca Luzzio

Leggendo il romanzo Michela ci aiuti di Francesca Luzzio mi è venuta in mente la nota commedia di Vittorio Bersezio Le miserie di Monsù Travet, che fu rappresentata per la prima volta nel 1863 al teatro Alfieri di Torino e poi edita in italiano con il titolo Le miserie del signor Travetti nel 1876
È stato un rimando della memoria nient’affatto insignificante. Infatti, se è vero che le vicende di Marco, il protagonista di Michela ci aiuti, non somigliano a quelle di Monsù Travet, da cui lo distanzia anche la tempra morale, però è anche vero che, come il personaggio di Bersezio, egli è vessato dagli altri e dal destino. Nel giro di poco tempo, infatti, si abbatte sul suo capo una serie di sventure: il tradimento della moglie, la perdita del lavoro, la morte della madre e quella dell’amatissima figlia Michela.

Il romanzo è concepito quasi come una scenografia per la realizzazione di un film: tanti brevi quadri successivi, con una preferenza per gli interni, con un solo attore in genere (talvolta due attori, al massimo tre). Uno dopo l’altro, i quadri costruiscono un avanzamento della trama e soprattutto dello stato psichico del protagonista, il quale elabora le vicende che gli accadono attraverso brevi riflessioni, interrotte per lo più dal sonno notturno, che rinfranca l’anima con una breve sospensione del dolore.
Si compone in questo modo un’esistenza simile a quella più o meno grigia, più o meno dolente dei tanti Monsù Travet rintracciabili in ogni tempo e luogo.
Lo stile della scrittura, conciso, veloce, che attinge a piene mani dal lessico quotidiano (tanto da rimandare ai dialoghi di certe telenovelas, genere assai diffuso come intrattenimento televisivo), si sposa ad un contenuto che invece si ispira alla tradizione ottocentesca (si è già detto poco prima della commedia di Bersezio) che ben presto non si limiterà più a rappresentare tematiche della vita quotidiana borghese, ma anche quella crisi dei valori che prima l’avevano nobilitata di contro il vizioso tenore di vita della classe abbiente. È per questo motivo che uno dei temi prediletti da questo genere letterario diventerà l’adulterio, così acutamente e dolorosamente trattato, giusto per fare un esempio illustre, dal nostro Luigi Pirandello (e fra le vicende negative subite da Marco, c’è, come prima si è ricordato, anche quella dell’adulterio).
Quando poco prima accennavo ad una certa affinità tra le telenovelas e il romanzo di Francesca, non intendevo affatto sminuire il secondo. C’è un interessantissimo studio di Alessandro Perissinotto sul legame fra la tradizione letteraria e questo genere televisivo, fondato su due elementi: la serialità e la persuasione. La prima sarebbe riscontrabile addirittura fin dalle strutture poematiche dell’Iliade e dell’Odissea, ricchissimi di episodi ma tutto sommato volti ad un solo filo conduttore (nei poemi omerici il ritorno di Ulisse a casa e la vendetta su quanti hanno osato insidiare la moglie). Essi per secoli hanno costituito il collante narrativo, etico e culturale del mondo greco con i suoi dei ed eroi ed eroine. Non dobbiamo dimenticare che Ulisse e Penelope sono un re e una regina e che entrambi sono tessitori di inganni con i quali sconfiggono il fato. Il loro fascino è stato un forte persuasore di valori, tanto da durare ancora oggi: il coraggio, la forza, l’intelligenza, la fedeltà femminile. La stessa cosa può dirsi dei poemi cavallereschi specie dell’età rinascimentale, che, sebbene zeppi di episodi estremamente fantasiosi, intendono sottolineare la superiorità della civiltà occidentale e cattolica. Entrambe le caratteristiche di serialità e persuasione si riscontrano in età moderna nella fan fiction.

Ci resta da dimostrare come tutto questo abbia una relazione con il romanzo di Francesca. Intanto, come nei poemi omerici anche in esso il destino sembra preparare, dopo tante sofferenze, il ritorno di Marco alla casa coniugale: un vero e proprio nòstos, sebbene privo di qualsiasi eroicità.
L’altra caratteristica della telenovela è che per lo più i fatti non vengono rappresentati, ma raccontati, e poiché sono messi sulla bocca di protagonisti amati dal pubblico, finiscono con il trasmettere messaggi più forti e credibili di quelli espliciti. Se spesso tali messaggi sono zeppi di stereotipi, talvolta, invece, si fanno promotori di una mentalità nuova, che viene prontamente accettata in quanto si sviluppa tra i personaggi e il pubblico una sorta di social relationship che diventa particolarmente suadente, implicando la sfera emotiva e intima.







Anche nella storia raccontata dalla Luzzio gli eventi non vengono quasi mai rappresentati, ma talvolta raccontati a voce alta e più spesso pensati, nel senso che vengono sottoposti al vaglio riflessivo del protagonista Marco, che, accentrando su di sé l’attenzione (il suo nome ricorre in ogni paragrafo dei 43 capitoli) persuade il lettore, posto di fronte ad una successione senza tregua di sventure, ad empatizzare con lui e ad accompagnarlo con soddisfazione fino al prevedibile “riaggiustamento” fra i due coniugi: una scelta, sembra, più dettata dalla convenienza economica che dall’amore vero e proprio, sebbene avvenga nel nome di Michela, la giovane figlia perduta in un incidente.
Ma, a volere andare più a fondo, questo finale ci dice qualcosa in più rispetto a quello che appare evidente.
Marco è un uomo normale, che rappresenta la classe media e porta con sé, nonostante qualche debole apertura, un bagaglio di stereotipi mentali e morali, tanto più duri a morire in un ambiente provinciale come quello che fa da sfondo alla trama del romanzo. Perdonando la moglie, Marco sembra volere ribaltare un pregiudizio che grava da sempre sulla donna che tradisce, ma, tutto sommato, la riconciliazione sarà possibile, perché egli si trasferirà nella città di Palermo, meno chiusa rispetto alla provincia, e, soprattutto, perché la donna pagherà per questo ricongiungimento con il marito uno scotto: sarà lei a mantenerlo economicamente e a prendersene totalmente cura.
Tuttavia l’aspetto più interessante della questione è che sia lei stessa ad avanzare questa proposta come una sorta di riparazione, di autocensura morale, se non di vera e propria punizione. L’epilogo della storia è in fin dei conti lo specchio di un riposizionamento ancora ambiguo della relazione uomo-donna. Marco non si interroga mai, se non superficialmente, sulle sue colpe e non esita in cuor suo a disprezzare la moglie rivolgendole gli epiteti più ingiuriosi, senza voler capire le sue ragioni e le sue debolezze.

Direi, dunque, che è l’ambiente provinciale l’altro imprescindibile protagonista del romanzo proprio per quanto è stato detto poco prima, a dimostrazione che luoghi, eventi, ruoli, valori sociali ed etici sono sempre in stretta relazione. Per chiudere questo confronto fra il romanzo di Francesca Luzzio e le telenovelas, aggiungo che entrambi sono il frutto di una società, quale quella moderna, che ha escluso dal suo orizzonte la dimensione eroica e quella di una divinità inattingibile, e ha preferito forgiarsi un nuovo tipo di eroe: quello che somiglia all’uomo medio, con i suoi difetti e i suoi limiti, nonostante il messaggio finale sia quello del trionfo dei buoni sui cattivi, giusto per assecondare una un’esigenza morale, per quanto superficiale, allo scopo di non deludere spettatori o lettori e di non offendere il buon senso comune.
Nel caso del romanzo di Francesca Luzzio bisogna precisare che il luogo in cui si ambienta la vicenda è quello dove lei è nata, dove ha vissuto infanzia e adolescenza e dove ogni anno ritorna di frequente, spinta dall’amore indissolubile per le proprie radici.
Anche la scelta della fotografia in copertina lo testimonia: ecco il lungo corso di Montemaggiore Belsito che si apre al verde delle colline, sullo sfondo: chissà quante volte sedendo e mirando l’autrice avrà detto, ripetendo fra sé e sé i versi dell’amato Leopardi: Sempre caro mi fu quest’ermo colle/ e questa siepe, che da tanta parte/ dell’ultimo orizzonte il guardo esclude, lasciandosi andare a riflessioni, ricordi e fantasie.

Sempre osservando la copertina, mi è venuta in mente la notissima canzone Che sarà portata al successo dal gruppo I ricchi e poveri nel 1967, che, a dispetto di una musica assai orecchiabile, tratta un tema doloroso che è quello dell’emigrazione di tanti italiani, specialmente del sud-Italia, in America o altre destinazioni a causa della mancanza di lavoro, tema a cui pure più volte accenna la scrittrice palermitana. La musica leggera, di fatto, annovera tantissimi testi sull’argomento, a cominciare da Mamma mia, dammi cento lire, il cui testo fu ripreso da una ballata piemontese della seconda metà dell’Ottocento e portato al successo nel 1969 dal Quartetto Cetra: tutto questo per dire che ogni forma d’arte, in quanto specchio della società in cui nasce, va considerato espressione di un certo clima politico e ideologico. Non è da ritenere, dunque, azzardato il paragone, poco prima individuato, fra letteratura e musica leggera: entrambe portano avanti spesso importanti tematiche d’attualità, integrandosi fra loro come strumenti egualmente validi di sensibilizzazione in rapporto alla varietà delle classi sociali e della formazione culturale.

Posted

15 Feb 2024

Critica letteraria


Franca Alaimo



Foto di Francesca Luzzio





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