Accade che la notte non si riesca o non si voglia dormire. E che tutti i pensieri viaggino nella mente, invadenti, inarrestabili. Dolorosi.
Maria Teresa Infante decide di metterli per iscritto indirizzando ad un’amica, lontana ma amata, delle lettere, investendo quel “tu”, a cui si confessa, di un ruolo assai più complesso di quanto possa sembrare, ché in esso innanzitutto si cela la necessità di guardarsi allo specchio, per chiarire a sé stessa un groviglio emozionale che non sopporta di rimanere all’interno di una solitudine, nella convinzione che dire ad un altro/a sia il modo migliore di sentirsi ancora viva e necessaria all’interno di una più vasta comunità. Soprattutto in un momento storico come quello che viviamo ormai da un anno, durante il quale, a causa dell’epidemia, la sensazione più diffusa è quella di una separazione dagli affetti, di una chiusura non solo spaziale ma anche mentale e spirituale.
C’è da aggiungere che la situazione contingente finisce con il divenire una cassa di risonanza a molte domande di varia natura: esistenziali (come il margine tra follia e normalità, se la prima diventa fermento e la seconda acquiescenza), socio-economiche (come la crepa tra l’innocenza di un passato non solo individuale ma anche storico, secondo quello che fu lo scomodo pensiero di Pasolini), e perfino ecologiche, se è vero che un problema su cui l’autrice più insiste è il degrado delle coste e delle acque del Sud Italia così inquinate dalle ecomafie da minare la salute di varie generazioni.
Il mare, che “torneremo a guardare”, come si legge nel titolo di questo libro, diventa l’emblema della bellezza, che bisogna recuperare per risorgere da una situazione di degrado generale, intendendo l’esigenza estetica non come qualcosa di avulso dal tessuto della realtà, ma come un’esigenza etica, che possa ricostruire l’Uomo, inteso sia come persona che come essere sociale.
La struttura del libro è variegata: prosa e poesia si alternano e quasi si sovrappongono, se è vero che la prima adotta della poesia non solo un certo ritmo, se non anche le rime, e la seconda spesso si colora di un timbro prosastico, dovendosi adattare ad un linguaggio quasi giornalistico di denuncia.
Al diario epistolare si aggiungono un racconto ispirato alla cronaca (con tanto di dati e nomi e date) e una “confessione” autobiografica, in cui l’autrice evoca non solo il suo passato e i suoi affetti perduti, ma si riappropria della Speranza, affidandosi al sentimento della fede e allo strumento della preghiera come ponte fra umano e divino per ritrovare una nuova fratellanza “senza frontiere, senza mezzerie/ senza nessuno a dirci di andar via/ senza la striscia che divide il sangue/senza il coltello al posto della mano”.
Il disordine apparente del diario epistolare mima molto bene la libertà del flusso dei pensieri (ita docet Joyce) che si susseguono zampillando l’uno dall’altro e che bene restituiscono lo stato di agitazione e di disagio provocato dalle proibizioni dettate dal rischio del contagio, che hanno limitato libertà di movimento, progettualità e, soprattutto affettività, mettendo lacci a gesti, comportamenti, urgenze del corpo e dell’anima.
Molti degli stati d’animo descritti dall’Infante coincidono con quelli provati da ciascuno, e tale somiglianza si traduce in una forte corrente d’empatia che lega la scrittrice e i suoi lettori grazie anche ad un nitido uso della lingua, ricca, incalzante, esatta, nonostante la tensione drammatica che l’attraversa, ben concretata in un quotidiano interrogarsi.
Del resto Maria Teresa Infante ci ha abituati da tempo ad una scrittura di forte partecipazione alla realtà e alle sue molteplici storture che la allontana dal rischio del sentimentalismo, così come il realismo e l’impegno non la fanno cadere nell’algidità. perché corretti da una prodigalità di compassione e, non di rado, da un sincero lirismo.
È un dono a sé stessi leggere questo libro, poiché identificarsi vuol dire oggettivare le proprie paure e liberarsene nominandole, per fare, infine, propria la resilienza dell’amore, a cui ci invita l’autrice.
La scrittura sa essere spesso taumaturgica.