La formazione poetica di Guido Oldani

Unico italiano nella storia ad aver ricevuto, quello che è considerato il Nobel cinese, ovvero l’International Poetry Award 1573.

Gli ultimi mesi del 2019 sono stati importanti per il Realismo Terminale. Tutti gli avvenimenti di questi anni si possono sintetizzare in un fatto di portata mondiale: il giorno 8 ottobre 2019, in occasione della terza edizione dell’International Festival of Poetry & Liquor, nella settimana dell’Arte della città di Luzhou e in collaborazione con il Governo Cinese, il poeta Guido Oldani, padre del Realismo Terminale, ha ricevuto l’International Poetry Award 1573.

Le motivazioni che hanno mandato per iscritto al Maestro, sono da capogiro e mi riprometto di condividerle con voi in seguito. Questo fatto, alla luce degli avvenimenti politici, economici, geografici e culturali che attraversano il mondo, prende una forma e una simbologia enorme. Nell’era dei dazi, la Cina restituisce al nostro paese, la dignità e il riconosci-mento più alto e vero di nazione portatrice di arte e cultura di tutti i secoli, da Dante a Oldani.

Ma ora andiamo alla notizia ufficiale.
“La notizia della premiazione è stata pubblicata, insieme ad un intero paragrafo sul Realismo Terminale, in Italian Poetry Review della Columbia University, n°XII. Il numero contiene quattro interventi critici di Guido Oldani, Giuseppe Langella, Paolo Lagazzi e Massi-mo Silvotti. Il Direttore della prestigiosa rivista è Paolo Valesi, poeta, e Ungaretti Professor alla Columbia da moltissimi anni. I realisti terminali ringraziano.
In questo mio spazio ho parlato e parlerò di Realismo Terminale, dando voce di volta in volta agli attori principali di questo movimento che come un treno in corsa, corre e cambia la visione del mondo, del pensiero e del linguaggio. Guido Oldani in Cina, ha portato con se il nostro cuore e il nostro orgoglio, convinti che nessuno più di lui merita questo riconoscimento, come poeta, uomo di cultura e geniale precursore e interprete del terzo millennio. Lo ha accompagnato il più giovane dei poeti realisti terminali, Igor Costanzo, esperto della Cina e bravissimo promotore culturale: anche di lui il nostro paese dovrebbe essere molto fiero.
Ora cedo la parola a Massimo Silvotti, filosofo e presidente del Piccolo Museo di Piacenza, unito da tanti anni ad Oldani da un’amicizia e un affetto filiale. Questo saggio, in seguito modificato, è stato pubblicato nel 2018 su Atelier.

L’iceberg del realismo terminale

La vicenda poetica di Oldani, già più che trentennale, non ha mai smesso di snodarsi tutt’attorno a un fare precipuo, d’impattare la realtà (realtà da indagare, non in funzione di un dire, per l’in sé del dire, semmai per l’in sé di ciò che il dire solletica e incalza; dire per capire, per essere [1]), che vuol dire, vuol dire e non può [2], e fargli spazio nella parola, renderla corpo presente [3], o giù di lì.
Con tali premesse, l’esordio con Stilnostro [4 – 5] fu particolarmente laborioso. Dinnanzi a una realtà asfittica, stantia, avvoltolata su se stessa, fuori di sé, Oldani, con apparente antinomia, scelse dilatazioni e contrazioni. La ricerca di valori assoluti, attraverso forme verbali che dilatassero il tempo, generando atmosfere di impalpabili confini [6], infiniti, gerundi, participi; ero avvinto da un’idea di assoluto, di atemporalità [7]. E la tensione verso uno spazio respirante, con conseguenza di concisione. Se il rigo è disadorno, se la parola è spoglia, ma densa, il senso è nei risvolti o altrove.
Ungaretti, nel Porto sepolto, sentì di aver molto da dire, in pochissimo tempo di vita; assistiamo ad una sincopatia del verso che quasi balbetta di fronte alla guerra; una parola abissale, uno sguardo sgomento, rivolto gioco forza al quoti-diano. In Stilnostro, la parola è moto a luogo, anela a mostrare una via, o più vie, verso orizzonti di senso (ma il miglior comprendimento / non è forse in fondo / o fuori? Stilnostro, Labirinto dire, p.13).
Tornando alla necessità di un’in-tensa corrispondenza con la realtà, allora punto di fuga sfuggente, l’idea geniale di Oldani fu di sbeccarla qua e là, per renderla perlomeno sensibile al tatto. Se la parola è impotente [8], la poesia si fa scultura, a volte lasciando nel non finito, o nel taciuto, la potenzialità delle sue forme (minor paroliere e / si sculturano forme / crescibili – Stilnostro, Labirinto dire, p.13).
Luigi Commissari, che a proposito di Stilnostro svolse il lavoro più organico, seppe evidenziare altre prerogative in questo allora esordiente davvero sui generis [9]; in primis, quell’esigenza a non ridire, ossia a non ricalcare la tra-dizione, a marciare sul tragitto della novità [10].
La perentoria asserzione di Commissari, peraltro feracemente avvalorata dallo stesso Oldani, mi pareva che la cultura del momento, come, a maggior ragione quella di oggi, fosse pari a un dente guasto da cavare [11], trova ulteriore puntualizzazione in Amedeo Anelli: Oldani anche quando sente la forza di un poeta, metabolizza sempre le sue fonti: non cita mai direttamente, tra-sforma o decontestualizza, e vi è sempre uno spostamento o un valore aggiunto [12].
Tornando brevemente a Ungaretti, c’è uno scritto del ‘27 [19], in cui lo stesso rende assai chiara la relazione, quasi simbiotica, tra l’endecasillabo e la nostra tradizione poetica: l’ha nel sangue ogni vero poeta italiano. È l’ordine poetico naturale delle parole italiane. Un approdo, dunque, ma solo a condizione di una vibrante coerenza tra suono e senso (generale e specifico) di ciascuna parola, e soprattutto sempre che la realtà lo renda possibile. Altrimenti come ha giustamente ipotizzato Commissari, attraverso l’analisi della poesia Endecasillabo (se quadrasse “vorrei” e “invece” / anche talvolta un poco / in un endacasillabo – Stilnostro, Endecasillabo, p.53), si finirebbe come il naturalista che cataloga i suoi risultati se-condo prefissati schemi [20].
Veniamo, ora, alle numerose affinità che legano l’Oldani di Stilnostro a Clemente Rebora, fra i maggiori poeti nell’orizzonte caro al nostro Autore [21]. Come si sa, è stato detto tanto e autorevolmente [22], a partire naturalmente da Giovanni Raboni. La poesia, per Oldani, dice appunto Raboni, tenderebbe ad una concretezza di pensiero posta al di là della parola, e al cui raggiungimento la parola stessa sarebbe tramite indispensabile e ostacolo materiale che impazientisce e addolora [23].
L’Oldani di Stilnostro, cercava casa fuori casa; intorno a sé, abitini scappati, saldi dei saldi di fine stagione; bellini, ma un po’ troppo leggeri per l’inverno incipiente.
È noto come la poesia italiana si sia sviluppata secondo due grandi direttrici di riferimento, l’una più affollata, la petrarchesca, l’altra pochissimo frequentata, la dantesca; ed è evidente il privilegiamento, da parte di Oldani, di questa seconda [13]. Stante questo umore dantesco [14], nel Novecento, tra gli italiani, è evidente il nesso con Clemente Rebora, generazionale con Pavese [15], controverso con Ungaretti [16].
Ma proprio con quest’ultimo, più della concisione, che in Oldani è condensazione, intriga semmai un’altra analogia. Come detto il sistema metrico di Stil-nostro privilegia il verso breve, dal set-tenario in giù, non c’era gran che con cui e di cui giocare [17], ma sovente l’onda ritmica, sigilla due o tre versi successivi nel-l’unità dell’endecasillabo [18]. Ciò vale appunto a proposito dell’Oldani di Stilnostro, ma come noto non pochi hanno visto anche nell’Ungaretti della parola franta. Ed entrambi i poeti, nelle loro successive raccolte, recupereranno appie-no la musicalità dell’endecasillabo.
Naturalmente sarebbe sterile se ci ponessimo verso la poesia, come per volerne carpire un ipotetico segreto rivelatore; ben altra cosa se invece l’intendimento riguardasse il voler cogliere possibili fattori di quell’oscillante equilibrio che sono propri della ricerca di ogni poeta autentico.

Ritorna la geniale scoperta di Oldani, il quale si accorse appunto di quanto infiniti, gerundi e participi traessero la realtà dalla fanghiglia del quotidiano, operando cioè uno scontornamento del reale che ne accresceva l’oggettualità.
Tornando a Rebora, tuttora molto amato da Oldani, non è stata un’ossessione quella per Clemente e, superato quel tempo di grande frequentazione con lui, un po’ me ne distaccai ma quando mi chiedevano i miei maestri, lo citavo, insieme a Mandel’stam e Pavese [24], ne ho discusso a lungo con lui in questi ultimi anni. Una tematica su tutte mi ha pervaso in profondità, il silenzio reboriano, che per lo stesso Raboni rappresentava addirittura uno tra i periodi della sua opera [25].
Oldani considera il silenzio di Rebora, oltre quell’oggettivo silenzio poetico prodotto in quel lungo, magistrale periodo suo proprio. È il silenzio che egli eleva a categoria del poetare, c’è da credere che il silenzio, a maggior ragione nei nostri tempi, vada considerato un’opera [26]. E lo fa suo: non dire nulla di più di quanto basti, altrimenti vien meno l’ossigeno in poesia [27]. In Stilnostro il silenzio [28] è presenza che trasuda da ciascun rigo. Accerchiato dallo stridore, occupa i varchi dello spaesamento (sarà / un ben smerigliato / muto silenzio (si prevede) / un ghiaccio sgocciolante / Polonord cinto d’assedio, – Stilnostro, Polonord, p. 37). Distante da un altro silenzio, quello di Mario Luzi (che regna nella stanza / è il silenzio del testimone muto / della neve, della pioggia, del fumo, / dell’immobilità del mutamento – Onore del vero, Come tu vuoi).
Il silenzio di Luzi è pregno di dignitosa rassegnazione per un drammatico stare al mondo, quello di Oldani possiamo raffigurarlo assediato da un mondo goffo e un po’ inebetito. Un immobile andante [29] sul tapis roulant.
E qui si viene a una visione del mondo, in cui l’uomo, per dirla ancora una volta con Commissari, è stretto dentro, è (lo sappia o no) implacabilmente assediato.
Mancano spazio, aria, orizzonte e innanzi e indietro e intorno. Non c’è agio, è impossibile un’uscita appena più in là … L’universo, così vasto, di fatto, preme da tutte le parti sul pertugio in cui si è conficcato l’uomo e costui è ben lungi dall’essere cantabile come il re degli spazi stellari. Costui striscia sulla via angusta della quotidianità, i suoi passi son legami, i suoi gesti sono dentro reti ancor prima di essere compiuti [30].
La poesia di Stilnostro è un’ostinata ricerca di orizzonti di senso, che il poeta interroga partendo da una dimensione esistenziale sovente non lontana da sé, a volte intima [31], familiare (si pensi ad esempio alle poesie Turibolo p. 25, Stelo p. 26, A quattr’occhi p. 38, Bimbi p. 67, Petizione p. 68, Due pargoli p. 71), ma che abbia sempre un valore potenzialmente estensibile; ad un piano verticale che tenderebbe a ossigenare lo sguardo, s’intreccia la dimensione orizzontale che ne insterilisce le profondità. Il movimento, a differenza di quanto accadrà nelle raccolte successive (da Sapone in avanti), è interno, interiore, vi è un’appropriazione ed un’analisi della dimensione mondana: struttura mondana che è interiorizzata e costituisce oggetto di meditazione, di stupore e di sconcerto e ripulsa [32].
Le poesie di Stilnostro ci consegnano un soggetto generale caratterizzato dalla minimità dell’esistere [33]. Due da questo punto di vista le poesie emblema, Esodi (e musicando esodi / non staremo a volgerci / già di salgemma tumefatti / andando) e Fossili (fossili di noi stessi / futureremo).
È qui, precisamente, che Raboni ravvisa il nome grandissimo e fraterno, di Clemente Rebora [ibid.].

A questa stessa tragica asfissia, ritraente come carta assorbente, necessitava contrapporre segni veloci, magri, scompiacenti, petrosi [ibid.] che rendessero la realtà tangibile.
Tornando per un istante al legame tra Clemente Rebora e l’Oldani di Stilnostro, in entrambi è forte la tensione morale, in ambedue è vivido il tormento fra la tremenda vastità del cosmo ed il dolore dell’effimera umanità [vedi nota n° 14] e tuttavia proprio qui sta la fenditura. Nel Rebora, prima della conversione, l’eticità è attesa, è tentativo di cogliere altro al di là dell’orizzonte, della finitezza cosmica e umana; nel Rebora convertito quel-l’altro è sperato, il guscio dell’universo nel proprio animo è stato rotto. Invece in Oldani è semplicemente sentito lo spessore infrangibile del guscio insieme con il suo privare di respiro e di spazio [34].
In poesia le affinità, i rinvenimenti di poetica seguono strani percorsi, da buddista azzarderei riferirmi a legami di natura karmica; sta di fatto che tra Rebora e Oldani si percepisce consanguineità, per questo a rischio di stra-vaganza voglio concludere l’Oldani di Stilnostro trasponendo proprio da una dedica a Rebora, il fulcro di un’affinità che avverto, non mi si chieda perché, di natura quasi corporea.
Qui ciclopicamente vive, qui si dibatte, come un maglio, come un rosso ferro che strida e che suoni – che si lamenti tinnulo – in una fucina, un cuore, e non so affatto, non voglio sapere qual forma qual iridata incandescenza nuova sarà per pigliare all’ansito nuovo del nascosto mantice, quale ispirazione ispirerà il suo futuro canto [35].

Conclusa idealmente la “vicenda” con Rebora Clemente (che in qualche modo riaffiorerà col Realismo terminale per l’impatto vigoroso dei suoi “oggetti”), se ne riapre un’altra, con un altro Rebora, Roberto, a suggerire come le coincidenze in ambito artistico, sappiano perlomeno intestardirsi. Oldani, conclusa la vicenda di Stilnostro, da Roberto, trasse una preziosa imbeccatura, più il tempo accelerava e più io rallentavo nello scrivere e anche nel pubblicare: qualcosa in rivista e bastava così. Mi viene alla mente la frase, questa volta di Roberto Rebora, uno dei sei della cosiddetta “linea lombarda” [36] e nipote di Clemente, mi pare a proposito delle navi che attraccano nel porto: “avanti adagio quasi indietro”, era di fatto il mio motto di riferimento [37]. In quest’ottica va considerata la vicenda di Latitudine, raccolta solo dattiloscritta, in un periodo compreso tra la fine degli anni ottanta e la metà degli anni novanta. Cinquantadue componimenti, parzialmente inediti, alcuni dei quali usciti in riviste e altro. Ora la domanda che occorrerebbe porsi riguarda le motivazioni per le quali Oldani non abbia cercato visibilità per questa sua raccolta. Una risposta, non del tutto esaustiva, ci viene direttamente dall’autore, quando afferma che Latitudine fu sostanzialmente una manovra di uscita da Stilnostro [38]. Latitudine si concreta precisamente tra Stilnostro (1985) e Sapone (2001); sedici anni segnati da trasformazioni epocali, il cui nesso tra quantità e qualità, primamente, ha cominciato a cozzare. Mi venne spontaneo notare che le cose intorno a noi aumentavano sempre di più e che dunque bisognava registrarne il loro vicendevole attrito, il loro sgomitare, il loro incarnarsi ed il loro crescente collidersi per incidentamento. Eravamo passati dalla bella velocità nello spazio libero del Futurismo, al fiato sul collo dell’intasamento indifferenziato di uomini e cose [39]. Restando a Latitudine non parrebbe casuale la coincidenza di temi legati alla patrificazione [40], tra l’ultima sezione di Stilnostro, ovvero Petizione, e appunto l’intera raccolta di Latitudine che del tema inerente la paternità, fa la propria cifra tonale (tu poi […] moltiplicandoti insaputo, tratto da Figli; vi amo temo / figli miei è sicuro / doppiato il giudizio / d’universo tratto da Famigliari spazi; “ombra nota / più precisa vivente / di tua carne” riconvergo / ai tuoi giorni / scaduti, e soffrendo / lascio figli / a riprendere fioco, / seguitandoti il moto, tratto da Padre).
Senz’altro le vicende umane, in alcune fasi di vita, e nell’alveo di vissuti conflittuali da romanzo familiare [41], erompono dalla poesia. E forse per questo Latitudine non interrompe la riflessione di Oldani, avviata con Stilnostro, semmai la implementa e la cristallizza, fino a un suo naturale assorbimento; la silloge rimane sostanzialmente fedele all’impianto e agli umori di Stilnostro, divenendone un solido e sentito prolungamento, accompagnato da una radicalizzazione tematica, una maggior decantazione stilistica, chiarezza e figuralità [42].
Ma detto delle numerose rispondenze, non mancano alcune peculiarità, ad esempio la particolarità dell’attacco in minuscolo, sia dopo il punto, sia all’inizio di ciascuna poesia (che proseguirà in tutte le raccolte successive), quasi a voler sottolineare la pochezza di una realtà scevra di scorci e per questo non meritevole del maiuscolo, ma anche, a mio avviso, a voler certificare di una quasi impotenza della poesia al cospetto di una realtà bitumante. In Latitudine si estremizza la ritmicità del verso (bisillabi, trisillabi, quadrisillabi, quinari, senari e settenari, molto rari i metri più lunghi) accrescendone ulteriormente l’effetto sculturale; un’erosione del linguaggio, bilanciato da una plastica musicalità.

E così si giunge a Sapone (2001), si avvia cioè irreprimibile la necessità di una ricognizione dal basso, di adesività, di collosità con il mondo, intanto il mondo cambiava a rotta di collo e lì in mezzo incominciavo ad avvertire che nella poesia c’era poca realtà o, quanto meno, le cose concrete c’erano, ma avvertite per toccata e fuga… E la realtà? Mi dicevo: “Ma che cosa sarà mai questo, il tempo della sua assenza documentale … eravamo a fine millennio … Ne parlai più volte con Raboni; dopo un po’ mi disse, non ricordo su quale testata, di aver scritto che di realtà ce n’era poca, ma si riferiva alla narrativa. A mio avviso, il problema si radicava proprio nella poesia [43].
Se Stilnostro fu l’ossimoro di un mondo scrutato dal poeta, aspirante astronauta, era bellissimo tutto ciò, era come essere approdato ad una nuova esistenza, in cui tutto veniva veduto da molto lontano [44], Sapone mosse dall’imperativo d’impattare la realtà scandagliandone il sottosuolo, dalla cintola in giù. In questo dibattersi sul fondo dell’esistenza, tra fuga e rapina, tra morte data e morte ricevuta, Oldani ricerca i segni di una condizione umana più estesa e universale. Seguendo la traccia dei cani e dei topi di città, ma anche degli oggetti di uso quotidiano, ormai consumati e inservibili, la figurazione poetica ritrova il bandolo, dal basso, del destino umano. Riaffiora così, attraverso corpose evidenze, la precarietà insanabile del vivere, pur nel mezzo di una società evoluta e opulenta, sferragliante di sempre nuove promesse tecnologiche [45].
È interessante rilevare come il carattere profondamente innovativo della raccolta, s’inserisca all’interno di una riflessione a largo raggio che, negli anni compresi tra il 1997 e il 2000, vide Oldani assumere posizioni critico letterarie a dir poco dirompenti, nel dibattito sul fare poetico contemporaneo. Cronologicamente, al convegno promosso dalla Fondazione Svardo a Stoccolma (1997); con un intervento orale al Circolo Brecht di Milano (1998); negli atti del simposio Binding the lands, tra i poeti italiani negli U.S.A. [46] (1999); durante la conferenza Varcar frontiere, dedicato alla poesia italiana e promosso dall’Università di Losanna (2000) [47]; negli atti del convegno Scritture Realtà organizzato dall’Associazione culturale Milanocosa (2000) [48]. La tesi di fondo: di fronte ad un mondo la cui connotazione totalizzante stava certificando l’ammassarsi, il cozzarsi, il frizionarsi di genti in avviluppo centripeto, progressivo e inarrestabile, la poesia avrebbe dovuto attrezzarsi conseguentemente, di nuove implicazioni stilistiche e nuove forniture lessicali [49]. Ma Oldani non solo non ravvisò attorno a sé sensibilità real poetanti, ma anzi denunciò l’ipertrofia [ibid.] e la mediocrità operante negli avicunicoli poetici. Così, mentre egli provava a descrivere il capovolgimento in atto, coniando quello che allora definì realismo babelico [ibid.], quel processo di spogliazione del reale [ibid], già incipiente dalla seconda metà del Novecento, non rallentò la sua statica corsa; tra buona e cattiva poesia, tra intimismi e cerebralismi.
In Sapone si narra di quella cattiveria impomatata, di quel paludatissimo cinismo, che ancora non si è attrezzato degli accenti ironico sarcastici, presenti nelle raccolte successive. Sapone è una chiamata perentoria verso il ritorno a una severa pulizia spirituale e morale [50]. È disappunto, avversione, contrarietà, ripulsa, pressoché espliciti. La presa d’atto di una dicotomia insanabile, da un lato la provvisorietà irriducibile del vivere, dall’altro una società doviziosa, prospettante di sempre nuove, chimeriche, innovazioni tecnologiche.
Tornando al linguaggio della raccolta, in relazione alla realtà, la scelta di Oldani fu di renderlo quasi palpabile; una sorta di sbucciamento conoscitivo, come se ci si trovasse al cospetto di una cipolla, operando per stratificazioni. Così, mentre la figurazione si fa fitta e sintetica, il lessico eterogeneo ed aspro [51], per contro, l’endecasillabo (metro dominante della silloge) si fa scandito e cantabile. Si avverte come una necessità di riscatto, di ordine, cadenza, misura uguale, proprio mentre la lingua restituisce la rugosità del mondo [ibid].

La micro raccolta “La betoniera” (2005), poi interamente confluita in Il cielo di lardo, è una plaquette di dodici poesie. Trattasi di dodici apologhi, il primo di nove versi, tutti gli altri di sette, in endecasillabi [52], la forma musicale, annunciata dal soggetto esplicitato dal titolo, subisce sviluppo nei primi sei versi, talora con cadenze ad inganno, apparenti divagazioni o espansioni fantastiche, e si risolve nell’ultimo verso … L’apologo segue quindi la sua compiuta e perfetta traiettoria, come un proiettile sparato da un obice fino alla finale deflagrante sentenza o presa d’atto [53]. Con questa raccolta, assolutamente fondamentale, comincia ad appalesarsi poeticamente il realismo Terminale (2010). Perché con Sapone, Oldani pose le fondamenta, ma fu con La betoniera che la casa del realismo Terminale si configurò sino al tetto. Primariamente, la similitudine rovesciata (il mare come una saracinesca – Sedie a sdraio, p. 10; come cravatte rosse verso il cielo / si affacciano le fiamme al davanzale – Cravatte, p.11); una natura quasi ammansita (il lambro fiume senza un coccodrillo / dove tranquillo m’immergevo intero, / sull’acqua si può quasi camminare – Il sorpasso, p. 16); oggetti che padroneggiano il nostro immaginario (i due cappotti siedono vicini / portati senza portamento alcuno / come due bucce vuote di banane – I due, p. 14); oggetti e persone avvoltolati, costipati (la centrifuga gira come un mondo / e i suoi abitanti sono gli indumenti – La lavatrice, p.20); l’uomo, sempre più abbruttito (sono in tanti faranno un po’ per uno / nel mentre è quasi pronta la polenta, / come alla sagra ma è guerra civile / e ognuno le si appressa e la violenta. – La carne, p. 12); ironia e sarcasmo come pungoli estremi per un ravvedimento del genere umano (e hanno salvato il gatto per fortuna / la vecchia no, faceva grida indegne – Cravatte, p. 11).

“Il cielo di lardo” (2008), è il naturale compimento di un lungo viaggio verso quella semplicità formale, verso quella chiarezza espositiva, che rendono questa raccolta davvero straordinaria per efficacia comunicativa. Vengono alla mente alcuni grandi scultori, i quali perfezionata al sommo grado la loro tecnica, hanno privilegiato l’essenzialità, alla magnificenza. La pietra grezza, al marmo immacolato.
Con “Il cielo di lardo”, Oldani completa quella parabola concepita come un puzzle, far affiorare frammenti di verità, aggiungendo progressivamente piccoli riquadri di realtà. La brevità delle composizioni funge allora da misura, anche per il poeta, che si obbliga a pensare e strutturare ogni poesia come un mondo a sé, un’unità di senso, quasi un frammento olistico, che si regge da solo, di un insieme coerente, pur essendo in dialogo con altri sistemi simili … La brevità, inoltre, ha in latenza la possibilità di insinuarsi meglio fra le pieghe del nostro nevrotico stile di vita [54]. Il cielo di lardo si compone di centocinque poesie che, come detto, inglobano le dodici di La betoniera. Nella forma dell’apologo è un grande affresco dello stato di degrado del nostro paese, della nostra cultura, della spiritualità, del vivere quotidiano [55] di un trentennio di storia patria. Dal punto di vista strutturale, Il cielo di lardo ricalca la forma e la misura di La betoniera [vedi nota 52]; il modulo 3 + 4 in endecasillabi resta, anche se qualche volta si amplia notevolmente (otto, nove …), fino ai 19 e 20 versi delle due preghiere che concludono il libro.
Molto intrigante il titolo della raccolta che richiama ancora una volta a quella coltre di invalicabilità, quello spessore infrangibile del guscio, insieme con il suo privare di respiro e di spazio [vedi nota 34], di cui si diceva a proposito di Stilnostro. Ma questa volta il carattere dell’impresa di ossigenazione del mondo, tirando in ballo direttamente il cielo sopra di noi, acuisce la percezione di ineluttabilità. E il lardo richiama esplicitamente all’untuosità, alla scivolosità, alla impermeabilità. Se in Sapone il richiamo alla pulizia morale fu tanto esplicito, quanto disatteso, la risposta che ci viene da Il cielo di lardo si connota, negli accenti drammatici, circa la pervasività di un vulnus di probità, oramai fattosi regola (per non vivere fuori dalla vita / dicono che una spanna occorre avere, / di pelo, sullo stomaco a infoltire – Il cuore, p. 107).

Il realismo Terminale, dalla Città che sale di Boccioni [56], alla città che stride e collide di Oldani. Sono passati cent’anni; millenovecentodieci, la tela futurista, duemiladieci, la pubblicazione di questo dirompente distillato di poetica. Inconsapevolmente, il quadro si dimostrò premonitore. Pathos di raccozzati inurbamenti, intersezione di perimetri [57], dinamismi disumanizzanti; figure e sfondi permearsi. Cavalli trattenuti da uomini, aggrappati alle briglie, inutilmente. Prodromi di una natura che si consegnerà ad un futuro straniante. Casualità, non penso. I nostri corpi entrano nei divani su cui ci sediamo, e i divani entrano in noi [58]. Gli autentici capolavori, quando impattano la Storia, è fisiologico divarichino le prospettive. Perché l’arte è fatta dagli uomini; alla pura espressività che annusa lungimiranza, si contrappone l’auspicio. Sovente, da un lato la passione, dall’altro l’intuizione aurorale. E i Futuristi che rimasero abbarbagliati dalla velocità, si misero in sella alla mordente locomotiva, ma persero di vista la curva tendenziale del progresso. Il Futurismo aveva prefigurato uno sviluppo centrifugo, l’esito del realismo Terminale constata un movimento totalmente centripeto. Ma tutto ha avuto inizio con l’Utilitarismo, tra Sette e Ottocento; nel rappresentare una cesura netta col passato, il termine felicità verrà sostituito con altri, piacere, desiderio; da quel momento queste espressioni entreranno nel linguaggio comune e non ci lasceranno più. La felicità verrà intesa, come mero rapporto tra gli individui e i loro beni. E ciò nonostante, tra gli economisti classici, ci fosse già allora chi ricordava che la felicità non consistesse nella profusione delle cose, ma nella loro qualità. Eccoci a un punto cruciale, non si può comprendere il realismo Terminale, se non si coglie appieno la correlazione tra quantità e qualità; quando cioè la quantità, divenuta esponenziale e straripante, ha trasformato la realtà sul piano qualitativo, rendendola altra, per sempre. Si noti che nel realismo Terminale il nesso quali quantitativo non distingue tra inurbamenti e intruppamenti di cose o persone. E infatti gli attuali fenomeni migratori, definiti a ragione epocali, non fanno che avvalorare la tesi di una sorta di simbiosi tra oggetti e umanità [59]. Con gli oggetti nel ruolo remake, della tabaccaia ammaliatrice di Amarcord, e noi tutti avvinghiati alle sue enormi mammelle, questa volta di silicone, a sussumere quel poco di realtà che ci possiamo ancora consentire; realismo? Uomini sempre più asserragliati in piastre abitative, come cotolette impanate nei prodotti, che adesso ci abitano a loro volta, rendendoci oggetti noi stessi. Terminale è quindi l’identificazione – distanza, oramai definitivamente colmata, tra uomini e oggetti.

E ciò è così vero, che forse nell’accezione realismo terminale, a dover richiedere il maiuscolo sia l’aggettivo, anziché il sostantivo. Ma procediamo organicamente, come detto Il realismo terminale, pamphlet e manifesto letterario, pubblicato nel 2010 da Mursia, è un saggio, le cui tesi, o meglio constatazioni, tanto dirompenti quanto incontrovertibili, non hanno potuto che travalicare il solo ambito della poesia. Così, da illuminante libretto di poetica, il realismo Terminale ha assunto repentinamente le connotazioni di un Movimento culturale a tutto tondo. Già nel 2012, specialisti di diverse discipline, da medici a matematici, da filosofi ad antropologi e psicanalisti; oltre che poeti e critici, si sono confrontati con gli assunti di Oldani, nell’ambito della manifestazione Traghetti di poesia (Cagliari). Ne è venuta un’ulteriore riflessione critica, La faraona ripiena – Bulimia degli oggetti e realismo terminale (a cura di Elena Salibra e Giuseppe Langella), dalla quale è ulteriormente scaturito, A testa in giù – Manifesto breve del Realismo terminale. Una paginetta densissima, tanto esplicita quanto chiarificatrice, la quale, oltre alla firma di Oldani, ha visto aggiungersi due ulteriori prestigiosi contributi, degli italianisti Elena Salibra e Giuseppe Langella. Tornando all’intuizione del realismo Terminale di Oldani, ecco come lo stesso descrisse questa autentica folgorazione risalente all’inizio del nuovo millennio: sono stato letteralmente travolto da quello che sta accadendo: è così totale e radicale che sarebbe stato come finire sotto un treno e far finta di nulla. Letteralmente l’uomo non può più sfuggire ai prodotti ed attraversa mari e monti per raggiungerli. È come se tutti quanti volessimo abitare lo stesso punto della terra. Nasce una torre di babele al contrario, la metropoli come recipiente mostruoso di gente accavallata sugli utensili presenti. In fondo l’umanità intera sta ai beni di consumo come le mosche stanno allo sterco. I secondi sono ineludibili e rappresentano il destino ma questa sarebbe stata, forse, antropologia e mi sarei potuto fermare qui. Questa legge che ci governa ha però dei riscontri nel linguaggio. Tale riscontro è in fondo la mia poetica. Avrebbe potuto nascere anche in astratto e sarebbe stata una finzione letteraria. Questa invece è indotta, coatta, una conseguenza di una causa. Dopo tanto pensiero debole, riferire questo che accade equivale a pensiero fortissimo, è questo il tempo della totalità [60].
Come ha correttamente evidenziato Sabrina De Canio, in un suo recentissimo contributo critico, il realismo terminale agita non poco le acque stagnanti della letteratura italiana, operando una sensibile correzione di rotta rispetto agli statuti tardo novecenteschi della poesia, di cui rilancia il ruolo civile, e offrendo una stimolante riflessione sulla condizione dell’uomo contemporaneo, sempre più “snaturato”, a motivo del suo consumato allontanamento dalla Natura, e divenuto consenziente manovalanza in un mondo dominato dagli oggetti, prigioniero di città tentacolari dove si accatastano popoli e merci [61].

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13 Mar 2020

Realismo terminale


Taniuska - Tania di Malta



foto dal web

Articolo già pubblicato in Versospazioletterario





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