L’universo concettuale, morale ed estetico che si dispiega nella raccolta poetica di Maria Teresa Infante La Marca, Un quarto alle 3:00. Notti, Oceano Edizioni 2024, trova la sua efficacia espressiva nella categoria portante della “notte”, che è un “topos” della produzione poetica italiana e europea dal Settecento al Novecento.
Quasi come in un mistico raccoglimento, la poetessa pugliese viaggia dentro le sue notti, che diventano lo “spazio” dove ella percepisce la verità delle cose e si immerge nel mistero che conduce all’Essere, all’eternità e all’Infinito, così da riuscire ad entrare, in silenzio, nelle zone d’ombra della psiche umana:
Quando impari a contare la notte/ comprendi l’infinitezza che la contiene/ l’amore che accoglie/ il chiarore di stelle che/ chiudono gli occhi/ sulle nostre miserie…(p. 14);
Notti/ che inseguono albe clandestine/ tra le trame del divenire eterno (p. 29);
Anima/ a guardia della notte/ sono la pozza/ priva della goccia (p. 35).
La notte tra verità e discernimento
L’autrice non crede all’arte, alla poesia disancorata dal sovrasensibile, e reinventa il reale sublimando la quotidianità a filo d’anima; le formulazioni poetiche sono costruite sugli innesti emblematici di una tensione meditativa che ora è ricordo (Notti che restano/ anche quando l’alba/ le scaccia via, p.72) ora inquietudine e angoscia (Notti/ stilano compromessi/ senza lasciare traccia, p. 33), e che trova contemplazione ed approdo nella certezza di incontro con valori eterni.
La poesia di Maria Teresa Infante La Marca tocca un livello inconsueto per il costante respiro di Trascendenza e per lo spirito etico – riflessivo che traluce attraverso la sua partecipazione vitale ai problemi del nostro tempo e ai mali del contesto sociale; le notti così diventano il momento preferenziale nel quale gli elementi propri del notturno classico (stelle, mezza luna, mare, silenzio, cielo, buio, oscurità, sonno, morte, eternità, infinito) vengono rivisitati dall’acutezza sensoriale della poetessa e dalla sua capacità di attribuire aspetti antropomorfici al mondo naturale.
Poesie brevi, a volte tagliate ora con malinconia ora con bisogno di riscatto, sono quelle di questa raccolta, dentro la quale vibra un colloquio spirituale che porta l’anima a Dio e al prossimo, al cielo e alla terra nella loro intrinseca congiunzione, e che rivive nelle notti dove la “malinconia si fa preghiera” (p. 19), dove si agita il dramma della disperazione/ che più non tace (p. 55), dove Un quarto alle 3:00/ l’ultima sigaretta/ rimbocca il letto alle arterie/ conscia di dover dare/ un’opportunità alla morte (p. 63).
L’immagine della notte, insomma, ricorre frequentemente, impregna tutta la versificazione, che si appalesa come il continuo riverbero della coscienza dell’autrice che libera i pensieri dell’inconscio, accavalla i filmati della memoria dando consistenza alla rappresentazione della realtà diversamente inspiegabile.
La silloge rappresenta, sicuramente, uno stadio importante e significativo nel percorso di sperimentazione e di ricerca dell’autrice sull’itinerario della pienezza poetica. Il processo evolutivo traspare sia sul piano dell’affinamento della sensibilità che gli permette di cogliere con maggiore immediatezza, all’interno del proprio vissuto umano, anche frammenti inusuali di vita interiore e di realtà esterna, sia in ordine all’approntamento del registro stilistico, che denota la ricerca consapevole di tecniche formali più eleganti e dotate di sintesi incisive.
Le “Notti” di Maria Teresa Infante La Marca hanno pertanto una valenza trasfigurativa attraversata da una profonda variegazione di sentimenti e percezioni. Si tratta di:
Notti/ che vogliono amare/ altre che vogliono farsi dimenticare (p. 43);
Notti/ che si avventurano tra i vicoli oscuri/ poi tornano a casa/ più ebbre di ieri (p. 42);
Notti/ che si disperdono/ tra le indifferenti oscurità/ del firmamento (p. 45);
Notti/ che si inginocchiano ai piedi di un altare/ pregando l’alba di non far troppo male…(p. 59).
La notte come “disvelamento” della parola e avanzamento nell’ “oltre”
In Maria Teresa Infante La Marca risuonano echi del teologo e filosofo tedesco Johann Georg Hamann (1730-1788), che considerava la notte come momento di confronto e di contrapposizione tra sentimento e ragione, e che riteneva i poeti gli unici in grado di intuire l’essenza del reale e della vita; ci sono anche echi del poeta tedesco Novalis, il quale nei suoi Inni (1797 – 1798) interpretava la notte come lo spazio del contrasto tra la vita diurna , con tutte le sue fascinazioni e apparenze, e la verità della realtà che la notte rivela. La notte della poetessa pugliese conosce la medesima dialettica, vive vibrazioni interiori che alternano bellezza e squallore, libertà e soggezione, luci e ombre, frantumazione e ricomposizione, agio e disagio, consenso e dissenso, armonia e dissonanza:
Vegliare fingendo che dorma/ è vivere morte apparente/ che stronza la luna che mente, (p. 25);
Notti che sanno/ e fingono di ignorare/ inginocchiate ai piedi/ di un angolo di cielo, (p. 34);
Notti/ che non ti appartengono/ simulano l’orgasmo nel tuo letto, (p. 37);
Notti che sfuggono la poesia/ restano a letto per apatia/ notti che sono già poesia/ senza bisogno della mia scrivania, (p.80).
Il notturno, scenario d’immagini e pensieri è “tempus edax rerum”
L’immersione nel mondo notturno è per Maria Teresa Infante La Marca la possibilità che ella ha di estraniarsi dal quotidiano, dal diurno, dal mondo dell’esteriorità, per entrare nell’orizzonte di una spazialità atemporale ove immagina anche di bere un caffè (Un quarto alle 3:00/ un caffè ha goduto di me) e osservare “il cerchio del mutamento”. La sua mente concepisce immagini sfumate, oggetti che nella notte si mescolano, si confondono e si sublimano dentro il paesaggio dell’anima, dell’inconscio, della memoria, dell’espansione dello spazio e del tempo, snodandosi con nessi linguistici che danno alla notte un vero e proprio effetto poetico, quasi da far venire in mente lo Zibaldone di Leopardi quando scriveva: “le parole notte, notturno, le descrizioni della notte sono poeticissime, poiché la notte confondendo gli oggetti, l’animo non ne concepisce che un’immagine vaga, indistinta, incompleta, sia di essa che di quanto ella contiene” (Zibaldone, 1929-30, 16 ottobre 1821).
Questa raccolta poetica è veramente uno scrigno di poesia lucida, carica di mistero, di domande, di silenzi, di visioni e di sensazioni, di afflati gnoseologici e filosofici che spingono la poetessa ad affermare che “Quando l’oscurità persiste gli occhi si abituano a decifrare il buio, ogni forma si riappropria della sua essenza, i sensi si acuiscono, discernono sostanza e accidente, le ombre scagliano altrove strali di terrore. Il pensiero domina l’assoluto, spadroneggia despota e libero al contempo”
È poesia dunque, quella di Maria Teresa Infante La Marca, che avvolge il lettore nella dialettica buio – luce, terra – cielo, sentimento – ragione, facendo emergere i limiti, le follie, il deserto morale dell’esistenza umana ed aspirando alla sorgente del riscatto, della purificazione, dell’ascesi; è poesia d’un cuore che, nel bisogno di ricerca della Verità, e, conseguentemente, della forza morale che da essa discende, percepisce la notte come il momento di confessioni immediate, meditate e sofferte, come la sede in cui i profondi tremori dell’animo, le aride o tormentose ricerche dell’intelletto risuonano perché – come afferma la stessa poetessa nella sua stupenda introduzione – “la notte non lascia scampo, è vera, non abbaglia né acceca, è oro che si scioglie in bocca, inattaccabile, incorruttibile”.
Il notturno, insomma, è lo scenario di immagini e pensieri che “di noi si alimenta / nei fianchi affonda la scure” scrive la poetessa; è rivisitazione e adesione a una vita affannata di “verità palpate dolorosamente nella loro rugosità esistenziale e nella loro presenza metafisica – direbbe Zanzotto”.
Vi sono poi momenti, in questa silloge poetica, in cui la poetessa vive la notte come tempus edax rerum di ovidiana memoria, tempo, cioè, che divora la volumetria delle emozioni dell’autrice, va “in cerca di compagnia”, evade “per dire / di avere ancora un domani”, fa paura ai “sogni” che “svaniscono” quando gli occhi si addormentano.
Se nelle persone comuni certe immagini passano fuggevoli, “nei poeti – come annotava Benedetto Croce – persistono, si richiamano, si aggruppano”; è proprio quel che accade in questa raccolta poetica, dove le immagini del notturno si susseguono, ritornano ciclicamente con insistenza, formando organismi fantastici da cui promana quel fremito che fa sussultare la poetessa e che dice della sua umanità come gesto semplice e spontaneo di donazione. Da qui sgorga il suo poetare come complesso di idee e di affetti che sillaba gli istanti di “una bellezza – direbbe il Pazzaglia – immateriale”. Spesso è sulla parola, parola-misterica, parola-labirinto, che Maria Teresa Infante trattiene la propria identità evocativa e lirica e che raccorda le sue “Notti” con luoghi, vicende, avvenimenti poiché di notte i demoni/ sfondano le finestre/ infiammano la mente, (p. 73); di notte la poetessa intesse un dialogo con la realtà e dispiega il suo canto come soluzione d’analisi e sensibilità.
La poesia di Maria Teresa Infante La Marca è, per concludere, coscienza ammantata dalla notte che l’assiste, è ascolto di una essenzialità esistenziale che si svela, è canto di affetti tra conflitti, è espansione di sospiri, è tastiera di emozioni e sensazioni. Nel leggere la sua raccolta si sente il soffio di un’anima che nel suo notturno fa convergere carezze, ricordi, richiami, promesse, sconfitte e aspirazioni con la consapevolezza che quando:
muore il rischiaro/ il risveglio/ è uno schiaffo al domani, (p. 32);
una ninna nanna scende/ ad accarezzarti gli occhi/ non sai più se speri o ricordi, (p.31);
Un’altra notte passa/ non ci sarà un ritorno, (p. 39).