Il libro è pensato come intervista di Licio Di Biase ad Enrico Vaime , con l’intento di ricostruire, attraverso il dibattito, la personalità di Ennio Flaiano.
La cultura odierna, per allargare i suoi orizzonti di ascolto, sceglie il dibattito, la tavola rotonda, la relazione di libri, l’intervista all’autore o sull’autore, forme relazionali più gradite al pubblico attuale. Le figure reali presenti al dibattito, la scansione delle voci e dei caratteri, permettono un consesso familiare e non austero come invece appare l’universo di un libro. Il testo-intervista presenta anche la forma letteraria del dialogo tra due interlocutori che agiscono alla pari, mossi dallo stesso intento di riproporre un’immagine di Ennio Flaiano a tutto tondo, come l’intellettuale più acuto e significativo dell’Italia del secondo Novecento
Licio Di Biase ed Enrico Vaime svolgono un ruolo complementare nella ricostruzione del poliedrico personaggio Flaiano: l’uno facendo perno sulle sue competenze letterarie ed artistiche per valorizzare gli “uomini magnanimi” della sua Pescara, Vaime, rivestendo quasi i panni di Lelio nel ciceroniano dialogo sull’amicizia, rievoca la sua amicizia personale con l’intellettuale abruzzese e la loro proficua collaborazione, che ebbe luogo nella Capitale, soprattutto nell’ambiente eccentrico di Via Veneto, frequentato da letterati e cineasti.
L’intervista, nel formato saggistico di un libro, si compone di sei parti corrispondenti ai settori della variegata produzione di Ennio Flaiano (scrittore, giornalista, sceneggiatore, aforista). Sebbene la critica formalista, strutturalista e crociana riservasse la conoscenza di un autore alla lettura dell’opera, come universo privilegiato in cui egli lascia tracce di sé, senza altri apporti di contorno, appare ovvio invece che un autore, pur volendo porre tutto se stesso nel libro (Lorenzo Sterne), non può esprimere in esso tutti gli aspetti della sua personalità e i suoi rapporti con la storia, che non mancano neppure in un soggetto schivo e solitario; l’intervista , a tal proposito, nelle sue varie forme, offre un supporto di conoscenza ed approfondimento.
Le interlocuzioni dell’intervista offrono un quadro di informazioni ricco e dettagliato per orientarsi nella lettura di Flaiano e conoscere particolari anche inediti della sua biografa.
Innanzitutto i particolari della nascita e dell’adolescenza di Flaiano, avvolti in un velo di mistero, come la sua esistenza orfana tra famiglie di adozione e collegi, pur nella presenza di una famiglia naturale numerosa. L’indeterminatezza del luogo di nascita, comune a vari intellettuali, ad esempio il conterraneo D’annunzio e, potrei aggiungere, Boccaccio, costituisce un elemento di profetica anticipazione: l’alone di favola cortese, che circonda l’origine di Giovanni Boccaccio, contribuisce all’autonobilitazione ricercata dal narratore nella vita e nell’opera; così l’indeterminatezza di certi luoghi biografici di Ennio Flaiano introducono a quella dimensione dimessa di abbandono e sradicamento che fu una costante della vita di questo intellettuale, riflettendosi nella sua psicologia pessimistica.
Come in un quaresimale contemptus mundi, Egli in tutte le fasi della sua attività intellettuale, infatti, torna a sottolineare la vanità dei comportamenti umani e in particolare della vita della Capitale, uscita dalla semplicità ed avviata all’edonismo e alla noia; ricorrente è anche, nelle sue sceneggiature più importanti (La dolce vita, Vitelloni), il mito letterario del giovane povero e sradicato che si avventura, dalla vita semplice del paese, al mondo della città, tra fascino e disorientamento; perfino nel romanzo, Tempo di uccidere, il tenente protagonista tiene, durante la guerra di Etiopia, un comportamento di “forestiero della vita”, come Lo Straniero di Camus.
L’attaccamento alla sua terra d’Abruzzo introduce il nome di Flaiano nel novero dei personaggi di Pescara che hanno conservato il culto della “pescaresità”, accanto a D’annunzio, pur nella divergenza in altri aspetti della vita e della cultura. I suoi ritorni estivi hanno fatto parlare di una “Dolce vita “ abruzzese, in cui Flaiano avrebbe tenuto verso la sua città, protesa alla novità e al commercio, lo stesso atteggiamento di incanto e amarezza che nutriva verso la Capitale e gli idoli di via Veneto.
Soprattutto l’intervista contempla un riscatto dello scrittore e sceneggiatore, non adeguatamente valutato perché “troppo avanti” per il suo tempo, non conforme al dettato dell’accademia e non inquadrabile nei suoi canoni. La sua attività di “cinematografaro” e la sua produzione letteraria di breve respiro, costituita da aforismi, satire, parodie, lo resero inferiore ai cosiddetti letterati, ma fu una scelta consapevole di Flaiano, quella di evitare i tempi morti della testualità e di preferire la parola concisa e sapiente. Anche il suo testo teatrale, Un marziano a Roma, alchimia di canzoni e sketch, fischiato alla prima di Milano, avrebbe avviato il rinnovamento di un teatro italiano immobile e ingessato.
Le molte virtù dell’uomo furono la cristianità, la pietà, il decoro con cui sopportò i casi della vita familiare, il senso di amicizia che mantenne anche nei difficili rapporti; ad esempio, il rapporto con Fellini, nato in occasione delle più importanti e premiate sceneggiature (La dolce vita, Otto e mezza, Giulietta degli spiriti, ecc.), non si interruppe mai del tutto, nonostante il divismo del cineasta e la sua mancanza di scrupoli verso le idee e il lavoro dei suoi collaboratori anche geniali, confinati, dalla sua ingombrante superiorità, in posti di seconda classe (il viaggio in America nel 1964). Lucidità, acume ed intelligenza, sue virtù preminenti, gli permettevano di cogliere sempre il grottesco e l’assurdo delle situazioni, ma anche di filtrarle con un senso di amarezza ed ironia.
L’epiteto Satiro, scelto per Flaiano e adottato da lui stesso nella Solitudine del satiro, è la formula che meglio lo rappresenta: il satiro, membro del corteo di Dioniso, è l’artista per eccellenza, che esprime le sue sentenze non per muovere il riso, ma la riflessione sulla tragicità della vita. Satiro, nel Simposio di Platon, è Socrate, l’uomo ispirato dal Dio per riprendere con l’ acuta dialettica i vizi della società, traendone un senso di privilegio, ma anche di solitudine.