Ricorre quest’anno il 183° anniversario della morte di Leopardi, avvenuta nel 1837. Voglio ricordarlo, riportando una testimonianza affettiva del poeta in due lettere al padre: la prima del 1827, la seconda del 1828.
La critica leopardiana non è stata esente da tendenze riduttivistiche che hanno, a volte, eliminato completamente dall’orizzonte del poeta recanatese la dimensione della fede religiosa.
Studi, ricerche, approfondimenti, hanno sempre guardato con sospetto l’idea di una “presenza divina” nella poetica del Leopardi, sulla base di assiomi che hanno trovato la loro legittimazione nell’itinerario lirico del sentimento leopardiano, spesso interpretato in termini di negazioni riflesse anticristiane ed antiteistiche.
In realtà, la pagina del recanatese contiene al suo interno una meditazione sull’uomo, un senso e una ricerca del mistero, una riflessione sull’amore e sulla morte che non possono non condurre ad un interrogativo di fondo: c’era, in Leopardi, se non un credo, un animus religioso?
In questa direzione vorremmo tentare di indirizzare la nostra riflessione, ponendo l’attenzione su due lettere dell’epistolario leopardiano, certamente ricco di spunti per condurre a delle valutazioni critiche sul senso religioso del poeta.
Se, da una parte, è anzitutto indiscutibile che i testi poetici di Leopardi oscillano tra attestazioni di dubbio e atteggiamenti di pessimismo, tra la negazione del divino e la fede, la preghiera e la rivolta, è altrettanto indiscutibile che c’è una parte della letteratura leopardiana, come ad esempio in alcune epistole, che offre l’opportunità di capire ed approfondire meglio la dinamica religiosa del suo vissuto. Nella lettera del 24 dicembre 1827, scritta da Pisa ed indirizzata al padre in situazione di malattia, si nota un atteggiamento di grande sincerità del poeta, che dà testimonianza di sentito affetto ed amore al proprio padre:
Ella desidererebbe che io vedessi il suo cuore per uno solo momento; e a questo proposito mi permetta che io le faccia una protesta e una dichiarazione, la quale da ora innanzi per sempre le possa servir di lume sul mio modo di sentire verso di Lei.
Le dico dunque e le protesto con tutta la possibile verità, innanzi a Dio, che io l’amo tanto teneramente quanto è o fu mai possibile a figlio alcuno di amare il suo padre; che io conosco chiarissimamente l’amore che Ella mi porta, e che a’ suoi benefizi e alla sua tenerezza io sento una gratitudine tanto intima e viva, quanto può mai essere gratitudine umana; che darei volentieri a Lei tutto il mio sangue, non per solo sentimento di dovere, ma di amore, o, in altri termini, non per sola riflessione, ma per efficacissimo sentimento.
Ciò che nel testo colpisce è questo “atto testimoniale” con il quale Leopardi esprime il suo amore al padre, un atto che viene solennizzato alla presenza di Dio (“… Le dico… innanzi a Dio…”) quasi alla maniera di un giuramento, di una rivelazione profondamente autentica e per la quale si chiama a testimone Dio.
C’è da chiedersi: le parole del poeta “Le dico dunque… innanzi a Dio, che l’amo tanto teneramente…” sono da leggersi come una recita?
Quell’ “innanzi a Dio” è un modo di dire, un frasario nominalistico, un linguaggio artefatto occasionale?
Dal contesto della lettera sembrerebbe di no; mi sembra azzardato pensare che Leopardi recitasse una commedia, mentre mi pare più logico affermare che si tratti di un sentimento onesto, reale, vero ed autentico, tant’è che non appena conosce la malattia del padre egli scrive, il 14 maggio del 1828, un’altra lettera, nella quale, richiamando per ben tre volte Dio, afferma:
Carissimo Signor padre. Pare incredibile, ma pure io non ricevo che oggi la sua cara del 2: Dio vede con che cuore mi trovo dopo letto quello che essa contiene. È molto tempo che non provo una pena simile, e certamente queste sono le maggiori pene che io possa provare in mia vita. Ella che s’immagina l’ansietà ch’io sento e per lei e per me, spero che non vorrà lasciarmi senza notizie pronte e sincere di tutto quello che accaderà. Sia fatta la volontà di Dio.
Non ho mai sentito così vivo come questa volta il dispiacere di non trovarmi fra loro. Mi travaglia anche infinitamente il pensare che la sua salute indebolita per l’incomodo che Ella mi annunzia, e che avevo già inteso da Paolina, possa soffrire per questa nuova afflizione. La prego con tutto il cuore ad aversi cura. Spero anch’io che Dio ci consolerà.
Il testo della lettera, come si può notare, richiama Dio ripetutamente: “Dio vede con che cuore mi trovo dopo letto quello che essa contiene…”; “Sia fatta la volontà di Dio…”; “… Spero anch’io che Dio ci consolerà”.
Queste tre affermazioni di Leopardi non possono essere interpretate, a mio giudizio, come “reminiscenze religiose”, “sfoghini sentimentali”, ma vanno lette in chiave esistenziale, poiché nascono in un contesto segnato da una particolare esperienza che è quella della sofferenza, e perché sono portatrici di una connotazione teologica che appartiene al Dio della Rivelazione cristiana.
“Dio vede”, “Dio ci consolerà” sono antropomorfismi biblici che attribuiscono a Dio funzioni e qualità umane, tant’è che l’Antico Testamento spesso ricorre a immagini umane per designare Dio: Dio parla, ascolta, vede, soffre, consola, si adira, si placa etc. Questi due antropomorfismi usati da Leopardi sono la chiara attestazione che il Dio a cui lui si rivolge non è il Dio della filosofia greca, del Pantheon, dei politeismi, delle religioni cosmiche ed animistiche, ma il Dio della Bibbia, cioè il Dio che è “persona” , che prova tutti i sentimenti umani e che, nel caso specifico della lettera, è considerato da Leopardi come colui che “vede” la situazione di sofferenza e di malattia del padre, per la quale il poeta ne invoca l’aiuto e la sua consolazione.
Anche le altre due affermazioni “Sia fatta la sua volontà” e “spero anch’io che ci consolerà” sono indicatrici di un atteggiamento non teoretico ma esistenziale.
Ma come interpretare il fiat leopardiano? In termini di rassegnazione? di accettazione passiva del volere di un Dio dispensatore di malattie? È, a mio giudizio, il fiat della trascendenza, il fiat che riconosce una Volontà divina alla quale bisogna conformarsi; quel “Spero anch’io” lascia infatti intravedere un orizzonte nel quale il “fare la volontà” si essenzializza in un sensus fidei di natura biblica. Il “fiat” leopardiano è un atto dello spirito lucido e consapevole, un ossequio libero dell’intelletto e della volontà al Dio della Rivelazione, con il quale egli si abbandona a lui: un abbandono che nasce dalla speranza e che si affida alla speranza.