Lo spirito dell’opera

Un libro di Maurizio Muraro e Mariantonella Volpe dedicato al significato ed al valore simbolico del vino e del bere in genere attraverso i testi di numerosi libretti d’opera

Il titolo del libro di Maurizio Muraro e Mariantonella Volpe, Lo spirito dell’opera, apre un ventaglio di interpretazioni: il lettore pensa all’arguzia e all’in-tervento del comico o alla centralità dell’elemento spirituale. Poi, nella prefazione viene rivelata la genesi ispiratrice nel titolo di un romanzo di Gaston Leroux, Il fantasma dell’opera; l’aggiustamento per-sonale conferma la vitalità della cultura che procede tra tradizione e innovazione, richiami del presente e impronte del passato. Nella quarta di copertina lo spirito si identifica in un elemento centrale della narrazione drammatica, nel vino, che fa da protagonista in molteplici occasioni individuali e sociali, nelle arie e nelle corali, sempre adeguandosi alle opportunità e ai bisogni. Gli autori ci offrono un attraversamento dell’opera lirica nella forma di un prosimetro, in cui la parte in versi corrisponde alla selezione poetica di parti significative dei libretti e la prosa all’esegesi inerente alla vicenda, ai personaggi, agli ambienti e alle loro implicazioni culturali.




L’opera, di cui gli autori sono in vario modo interpreti e frequentatori, celebra l’onnipotenza del liquore magico del vino nella storia dell’umanità, chiamata a partecipare alla generosità della Madre Terra con gratitudine e rispetto, perché i doni materni raggiungano la finalità, cioè il bene e la salvezza del mondo. Le antiche scritture, religiose e bibliche, come filosofiche e letterarie (Bibbia, Esiodo, Platone), evidenziano il bene che gli dei avevano intenzione di diffondere con i loro doni e il reiterato intervento divino per correggere lo sviamento umano (Platone: Timeo, Crizia). La vite, insieme alla spiga, rappresenta il dono primario e fondamentale, sul quale l’uomo non solo fonda la sua sopravvivenza, ma costruisce i suoi rituali, sviluppando il costume sociale. Nelle vicende della narrazione melodrammatica, come si evince dalle scene riportate, questo prezioso dono, il vino, non costituisce solo bene e soccorso in quanto fornisce leggerezza, gioia di vita, il balsamo contro il male della malattia e della mortalità; esso contribuisce anche al traviamento e alla perdizione dell’uomo, interagendo nella vicenda umana e nella sua perenne dialettica tra male e bene.
Ho voluto sviluppare alcuni spunti testuali, ascoltando quei suggerimenti che sempre l’opera d’arte riserva nelle sue pieghe e perfino nei silenzi, risalendo così al significato profondo di questo dono per l’umanità, alla sua sacralità. La storia dell’uomo, a tal riguardo, affonda in una dimensione mitica e sacramentale, in cui gli dei si curavano del genere umano, apportando beni come la spiga, ad opera di Cerere, e la vite ad opera di Dioniso; anche l’ultimo Dio, Cristo, ha ripetuto la formula del dono, come simbolo della Sua eterna presenza tra noi, con l’offerta della Sua carne e del Suo sangue. La Sua venuta sulla terra si è resa necessaria per confortare gli uomini abbandonati dagli dei precedenti saliti all’Olimpo; si tratta di un secondo tempo della storia teologica dell’umanità, destinata ad essere abbandonata anche dal nuovo Dio, ma con una riconferma e una promessa più certa. È la narrazione che Holderlin fa della storia umana tra sacralità e perdizione, ed è il dettato recondito che i librettisti hanno immesso nel significante dei loro versi, anche nelle scene giocose apparentemente finalizzate ad una fruizione disimpegnata.

I Greci conoscevano bene le potenzialità del vino e gli effetti molteplici dell’ebbrezza: ne facevano esperienza da una parte nel rituale colto della tragedia e nel richiamo ai misteri di Dioniso, dall’altra nei simposi, riunioni maschili a sfondo politico-culturale, in cui trovavano la loro piena realizzazione al di là delle mura domestiche in cui veniva gestita e sommersa la parte più umile della vita, quella devoluta alla procreazione e alla sopravvivenza (Hannah Arendt: Vita activa). Platone, se nelle Leggi richiama la misura nel bere e sanziona gli eccessi, nel Simposio dimostra gli effetti benefici sui commensali: l’amicizia, la creatività del pensiero, l’arte, attributi dello stesso Dio. Qui, infatti, gli ospiti discutono di Eros e della beatitudine che questo semidio concede attraverso una divina follia. Il più ispirato nella discussione è Socrate, l’uomo più parco e saggio, le cui parole profetiche superano in verità i convenzionali elogi degli altri commensali. Nel Simposio, quindi, si celebra la presenza del divino tra uomini eletti, come se Dioniso annunciasse il suo arrivo, giungendo con le Sue Baccanti a civilizzare e pacificare l’umanità greca (intenzione rivelata chiaramente nella rappresentazione delle Baccanti); la Sua presenza desta amore, creatività, sincerità, una leggerezza purificatrice delle ansie e dei problemi materiali, una dimensione autentica, quasi primigenia e fuori del tempo. A questa dimensione richiama Orazio con il suo est bibendum davanti al focolare, protetto dalla neve che cade, tra amici formati al verbo epicureo, disposti ad apprezzare la vita, pur conoscendone la fragilità e la mortalità. Uno scenario analogo, tipicamente oraziano, tra il tepore interno e il calore del buon vino, ispira la poeticità sensuale di Boito nel presentare il godimento semplice ma vitale del cavaliere Falstaf dopo il pericolo di annegamento. Questo potere sacrale si rileva in una delle scene del Velo delle Grazie foscoliane, in cui il convito tra amici diventa luogo appartato dove la gioia è libera, il biasimo amabile, la lode sincera, la conversazione confidente e discreta. Così interpretato il rito del simposio fa sgorgare il dispregio verso gli eccessi e l’orrore della punizione. Chi eccede e non partecipa con il dovuto contegno al rito sacramentale viene punito dal Dio, e ne è esempio Penteo nella sua miscredenza (Baccanti). Esemplare, a tal proposito, diventano nel melodramma le figure di Macbeth e Don Giovanni, avvolti da un clima di eccitazione torbida e peccaminosa destinata al fatale contrappasso della morte. Don Giovanni è personaggio quasi mitico nella storia dell’opera per la sua condotta immorale e la conseguente meritata punizione, diversa nei librettisti delle varie epoche, ma sempre di tono infernale; egli si serve del dono del vino per soddisfare la sua depravazione e per ottundere la mente delle donne e di tutti quelli che egli vuole ridurre sotto il suo dominio. La punizione dell’eroe mozartiano, secondo il filosofo Curi, non si riferisce al suo mestiere di donnaiolo, ma alla sua empietà, il suo sadismo, una sorta di rivolta metafisica alla De Sade secondo Camus, con cui dispregia Dio e tutti i suoi epiteti. Egli viene trascinato nell’inferno non per la sua fama di seduttore, simile in questo ad un miles gloriosus che millanta le sue conquiste, ma per la sua morale negativa e nichilista.

La silloge librettistica di Maurizio Muraro e Mariantonella Volpe ci fa assistere alla bellezza e necessità della dimensione conviviale nell’esistenza dell’uomo: evidenzia le occasioni preziose in cui un brindisi o una successione di brindisi è capace di alleggerire la pena del vivere, soprattutto ove essa diventa più opprimente nei ceti subalterni (Puccini: Il tabarro); evidenzia l’ispirazione creativa all’insegna di un sincero brindisi comunitario , come nella generazione giovanile della Parigi ottocentesca (Puccini, Leoncavallo: La boheme); viene esaltato il potere profetico dell’ebbrezza, una delle felici follie platoniche che porta a godere del presente, proprio quando si addensano le nubi di un fato avverso (Traviata). Non mancano neppure i gesti eroici di cui perfino l’uomo comune diventa capace, se ispirato dal divino assenzio (Tosca, Cavalleria rusticana). Le due opere mozartiane su libretto di Lorenzo Da Ponte, di cui viene fornito un consistente assaggio, offrono implicazioni più problematiche e profonde del tema: qui brindisi e convivialità attingono ai fondamenti del pensiero. Nel Don Giovanni, Mozart, scomponendo la convenzionalità del discorso dapontiano, con la musica fa centro sull’arbitrio umano e sulla coscienza del peccato; in Così fan tutti il gioco della scommessa funge da ingrediente leggero ed arguto, ma non riesce a far dimenticare la filosofia cinica di Don Antonio sulla fragilità femminile e l’illusorietà maschile. Naturalmente la performance dei sentimenti viene potenziata dalla musica secondo quella teoria dell’affinità delle arti, che si associano nella sublime finalità dell’arte totale (teorizzata da Wagner e D’Annunzio)
Vorrei riportare i versi di una canzone interna al romanzo di formazione goethiano Wilhelm Meister, come stimolo e conferma alla nostra argomentazione sullo Spirito dell’Opera:

Io canto come l’uccello/ Che in mezzo ai rami dimora./ Il canto ch’esce dalla sua gola/ È il più bel premio che possa aspettare./ Ma se concesso m’è un desiderio,/ In un bicchiere di puro cristallo/ Il miglior vino fammi recare./ Lo porta al labbro, beve d’un fiato:/ Oh buon liquore che mi ristora!/… Nei dì propizi a me pensate/ E Dio ringraziate con pari calore/ Com’io ringrazio per questo liquore.

Uno strano cantore arpista, figura calva e asciutta con una barba fluente e una lunga veste scura, esprime i bisogni ingenui e primigeni dell’uomo; non su un palcoscenico, ma in una locanda popolare egli canta, chiedendo al Dio il vino e il canto, soddisfatto della vita in sé, semplice e disadorna, aliena dai miraggi del progresso.

Posted

29 Jan 2024

Critica letteraria


Elisa Lizzi



Foto dal web





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