Tra i plichi di posta, tutti in una volta sola, come i dolori e le gioie, mi accentro su un libro con copertina nera, elegante (la semplicità è tale) è un libro di Maria Teresa Infante; un quarto alle 3:00. Alieno ai “poeti”, mi ritrovo nelle sue parole che scandiscono le ore ossessive della notte.
Rimpianti, ricordi, refusi, stillicidio di minuti, secondi eterni, ore che non passano mai tanto piene di fantasmi, cadaveri e tu sei solo con loro, perdi ogni cognizione di te stesso, o sei forse il tuo te stesso in quegli attimi da crucifige? Quell’esortazione imperativa che gli ebrei fecero affinché il Cristo fosse messo in croce. Rimanda questo al Das Leben Jesu hegeliano: il Padre manda il Figlio in Terra ma, crocefisso, il Cristo non torna – come vorrebbe la dottrina ufficiale – al Cielo ma si dà all’uomo.
Un passaggio, lo vedo, dall’Io al Noi. Ecce homo, dice il vangelo di Giovanni, ma la resurrezione quando spetta all’uomo? O forse il male è il vivere stesso?
Dice un antico proverbio o detto orientale che dopo ogni notte buia, c’è il giorno. Ma è davvero così? Quando la luce ci inonderà nel nostrointus? È la notte antropofaga, cannibalica. Il nostro inquietante sé non si vorrebbe mai fosse invitato nello scorrere di intensi e laceranti attimi i quali scandiscono impietosi la nostra condizione umana di esseri sensibili e senzienti. È ossimoro o noi siamo un ossimoro? Forse perché dotati, per qualche errore genetico, radicale, di sensibilità, di inquietudine che mai si placa? La scansione delle notti ci manifesta il nulla, il vuoto, il baratro che è, nel contempo, in noi e fuori di noi...
Qui, nell’Autrice, non c’è la sera foscoliana che placa ogni “spirto” ma, al contrario, ci disvela le nostre fragilità e la nostra consapevolezza di stare sulla corda tesa nicciana sull’orlo dell’abisso, mostrandoci la nostra essenza che è anche il custodire il Nihil, il vuoto e inutilità d’esser- ci, (Dasein), esposti al pericolo di perder-ci, di perdere coscienza di noi stessi. Ci scopriamo clandestini in questo mondo, cercando di afferrare le stelle che ci sfuggono e nel contempo ci avvolgono. Lotta perenne di oltrepassare la cortina del dolore del nostro convitato di pietra inquietante, il nulla. O forse il nihil convive con l’essere? Non sono così divisi ma lati, aspetti del nostro tutto globale? In breve solo il Tutto può sussistere libero. Sono osservazioni che nascono incontrollate dalla penna o digitazione ma vere, spontanee.
La vera poesia di Maria Teresa Infante la vedo proprio nella sua incisività la quale ci conduce a riflessioni filosofiche, sullo statuto dell’essere quando l’animo si mette a nudo impietosamente, scardinando ogni mitologia: la finitezza dell’uomo è il punto su cui essa fa perno. La poesia è, diceva Hugo Friederich ma “per essere” crea relazione con sé e non arido soliloquio, ci suscita, in modo diverso dalle scienze, riflessioni: evoca in noi emozioni veraci che noi abbiamo rimosso o per falso pudore o per timore. Ci scopriamo non onnipotenti ma limitati e stranamente si ha paura dell’altro e non di sé stessi, senza sapere che il nocchiere è barca e mare nello stesso tempo. Un’opera da leggere, su cui riflettere.
Non si fa filosofia nei luoghi deputati tradizionalmente ma oltre il imes: il confine è costruzione sociale. Leopardi, Hölderlin o Valéry han fatto della alta filosofia eppure eran poeti.
Intelligenti pauca e ottima davvero l’Autrice in quanto ci solletica l’intelligenza, oppure dobbiamo raccontarci fiabe o lobotomizzarci con neurolettici per “non andare oltre”?