Poesia, poeti, pubblicazioni di sillogi poetiche: siamo da anni ormai davanti a un bivio che rasenta quasi il drammatico. Di poesia se ne legge davvero poca e chi la compone, nel coltivare la libera direttiva del momento – quella del verso sciolto – finisce per abbracciare ormai da troppo tempo una dimensione di prosaicismo quasi del tutto abusato, mentre la misura stessa del lirista, nel suo reiterato egocentrismo, rasenta spesso e volentieri il limite della ripetitività e forse anche della sopportazione da parte del lettore. Per questo e per altri motivi, la poesia ha perso in fin dei conti quasi tutta la consistenza e la possanza con la quale, pure nella seconda metà del Novecento italiano, da Pasolini a Montale, da Quasimodo a Saba ad un giovane Moravia in versi, sembrava essere ripartita.
Pochissime sono in realtà, nel generale baccano di pubblicazioni, reading poetici, festival e concorsi vari, le voci di compositori di versi capaci di elevarsi nel marasma di una cultura che fa della velocità il proprio trofeo e in cui, peraltro, è sempre più difficile emergere con caratteristiche di originalità, compiutezza e determinazione. Di tutto questo ne è forse consapevole Giuseppe Mollica – poeta lucano, per l’esattezza rionerese (siamo in provincia di Potenza) che, con discrezione ed eleganza, ci regala una silloge di pregiata e soffusa autorevolezza. L’autore sceglie un tema di fondo e ci parla in modi diversi eppure uguali nell’arco delle sue pagine del “destino dei pesci” (è proprio questo il titolo che dà nome alla raccolta pubblicata da Tabula Fati Edizioni nel 2017 all’interno della Collana dei poeti di La Vallisa) e lo fa attraverso una perifrasi di titolatura che già da sola affascina e pone interrogativi profondi e plurali, tipici della poesia di razza.
Nel mare del Terzo Millennio, nel marasma dell’avere più che dell’essere, nell’oceano dell’apparire più che del fare, l’anonimato è la persecuzione più insopportabile e la beffa più grande. I pesci sono piccoli e sono miriadi, vagano nel mare dell’omologazione politica, economica, sociale, spirituale più grande che si sia venuta a creare da qui agli ultimi duecento anni: i pesci siamo noi uomini, destinati a passare come in una corrente d’acqua senza soluzione di continuità, in balia di un anonimato, appunto, che questa “specie” si è costruita con le sue mani, ben contenta - chi lo sa - di essersi “sagomata” dentro un banco di prede piccole, ovvero nella propria in-espressione e nella debolezza della storia.
Di fronte a questa situazione l’autore non resta dimesso, abulico, abbattuto, ma di fatto elabora una vis poetica travolgente nella sua finezza, ponendo velate domande, azzardando ipotesi in trasparenza, lasciando intravedere condanne in filigrana, tutte bagnate dalla lucida e amara consapevolezza della piccolezza, quasi dell’impotenza, della voce poetica che le pone. Sì, perché, come dicevo, di poesia non si nutre quasi più nessuno.
A chi interessa il destino dei pesci, esordisce la poesia-leitmotiv della raccolta. A chi veramente importa cioè della nostra storia, dei nostri sforzi; a chi sta veramente a cuore la nostra piccola voce persa tra i miliardi di altre voci che ci circondano, a chi davvero interessa dei nostri tentativi, delle trame che ogni giorno andiamo disegnando magari ai margini di una regione italiana posta nella periferia del mondo come quella in cui il poeta vive e in cui storie si nascondono tra gli appennini, storie e piccole comunità simili a tante altre in giro per il mondo, luoghi in cui non ha nome e non ha ombra il grande albero di noci della sola fascia arata.
La “historia” degli uomini e delle cose diventa la strana compagna di viaggio anzi l’estranea fenomenologia appiccicata come sordida etichetta dietro le spalle di ogni uomo che non abbia pensato a costruirsi un patto col diavolo per far girare il mondo secondo le proprie direttive e perciò succube di una dittatura globalizzata. E allora – e Mollica ce lo dice in maniera netta e forse anche vellutatamente impietosa – in questa storia non c’è differenza tra la mano callosa del contadino, quella unta dell’operaio di una fabbrica impiantata nella periferia del sistema col miraggio del lavoro in più per tutti o il viso sporco di povertà assoluta di una bambina d’oriente.
Nel grande imbroglio del torrente della storia, narra Mollica nei suoi versi, grandi sono i malintesi, poche le certezze e spezzati, come i capoversi di queste liriche, appaiono le trame e i giorni, entro i quali però resta, in un quadro di nebbia fitta e incompiutezza, lo splendore delle piccole cose care al poeta, quelle cose semplici in cui l’io come sempre e da sempre si perde provando un minimo di ristoro intellettivo, cose dentro cui, anche solo per un attimo, egli trova respiro. Le cose semplici restano sempre tra le righe della grande storia, per nulla o per poco fanno testo, importanti e non importanti ad un tempo, confuse nella grande, acuta e silente sofferenza dei tempi che stiamo vivendo, di cui il poeta sente stridula e corrosiva tutta la portata dolorosa e funerea.
Terrazzamenti di pietra sul mare /… /allineate verso il monte le tre case di campagna verso la valle/ gli occhi vuoti dell’uomo anziano/ di piccole cose una dietro l’altra unite/ le strutture della vita. Piccole cose una dietro l’altra sono le stagioni dell’anno di cui ancora gratuitamente noi piccoli uomini, pesci piccoli, possiamo godere, prima che lo scotto di un fascismo storico che crea terrorismo ammazzi del tutto la visione del poeta, il quale per rifarsi il cuore deve per forza di cose ricorrere alla ricerca della purezza dell’inizio della cultura che risiede inevitabilmente negli albori artistici delle nostre civiltà mediterranee, greco-latine, in cui è facile comunicare andando dritti al centro dello spirito attraverso il ritmo eterno dei tempi della terra, un ritmo che ci riconnette a noi stessi al di là di tutte le inenarrabili ferite sociali, economiche, politiche inferte dal corrotto tempo degli uomini.
E così dalle luci e ombre a 45 gradi dell’estate, al cielo autunnale che ritorna grigio e piovoso tra le alte nuvole di settembre fino alle piccole orme nella neve sull’antica scalinata di pietra per finire all’intenso odore di acacie sul viale chi fa poesia trova per un attimo eterno la sua requie, la sua pace, l’amicizia fedele della natura che viene comunicata intensamente, sebbene nel brevissimo flash di una luce a intermittenza, anche a chi questa poesia la legge. Perché se è vero che, persi in questo tempo di nebbie confuse siamo case e voci e ogni singola storia non detta, se è vero che siamo occhi e sorrisi nella rete di questa epoca povera di democrazia apparente di passaggio, se è vero che siamo quasi tutti piccoli pesci costretti presto o tardi a nuotare lontano da questo o quell’altro lembo di appennino o di montagna del globo nella direzione contraria /… /ai tuoi interessi pratici/ da questa verità costretta, è altresì vero che chi fa arte non può morire a sé stesso proprio perché ha deciso, scrivendo, di non morire mai. Chi fa poesia, vera poesia, emana quell’eterna ed incomprensibile fetta di luce oltre foglie o nuvole o chi lo sa quale altro mistero della vita, per dire all’uomo del branco, ai piccoli pesci chiusi in banco nel mare, che il meglio verrà, e come dicono, deve ancora venire … “chissà”, dice la Musa o l’Oracolo, chissà.