Esco per l’ormai solita passeggiata nel deserto, un deserto contaminato dall’uomo e dalla guerra. Affiorano semi sepolti i residui industriali, bidoni, lamiere contorte, crivellate dalla ruggine e pericolosi spezzoni di filo spinato affioranti ovunque, o ammassati in grandi matasse aggrovigliate. Semi affondata al largo, nel mare, giganteggia lo sventrato relitto di una petroliera, ma la luce, lo spazio e il silenzio conferiscono dignità di relitto a ciò che è solo spazzatura.
Cammino col vento alle spalle, guardo lontano, ma sto anche attento a dove metto i piedi. Vado in esplorazione di un’area nuova, incuriosito dalle strutture abbandonate e spettrali di un ennesimo hotel in costruzione, dietro le quali, ogni mattina vedo inspiegabilmente atterrare un elicottero che fa la spola tra l’isola di Tyran, che mi sta di fronte come il miraggio d’una terra promessa, e questo posto dove non c’è niente. L’elicottero arriva spedito, in linea tesa, attraversando il braccio di mare dove riposa il grande relitto della petroliera squarciata a metà ed adagiata su un fianco ormai da trent’anni che con la sola forza del ferro, resiste senza speranza all’inesorabile assedio della salsedine e all’impeto dell’onda.
Ancora lontano, l’elicottero già incombe frustando l’aria in un crescendo minaccioso da incursore, descrive un semicerchio avvicinandosi controvento al cantiere, scompare atterrando dietro di esso e subito dopo riprende quota e riparte, carico di una benna che pare vuota, per tornare da dov’è venuto, su e giù per tre, quattro volte. Nessuna presenza di un essere umano a dar senso a questa operazione e la cosa, in quello scenario lunare, nella mia immaginazione visionaria si tinge di una sfumatura surreale e misteriosa, bella, per qualche verso.
Ho cinquantaquattro anni, ma la mia fantasia è ancora adolescente e così non sono mai solo perché padre e figlio dialogano tra loro incessantemente, parafrasando le dinamiche di Dio.
Immerso in quest’avventura vado avanti senza incontrare anima viva, su e giù per le dune di terra arida e polverosa con la vista che spazia fino alle montagne a sinistra e a destra sul mare. Qua e là, piantati nella sabbia, noto cartelli scritti in arabo e in inglese che vietano il transito con la provocazione di un cancello chiuso nello spazio libero e vuoto di un deserto: divieti scaduti, incomprensibili, ridicoli come la bandiera della conquista americana della luna se non fosse per certi presidi militari o di polizia che dominano le alture con mansioni non chiare di sorveglianza. Il mondo è grande, penso per mia consolazione tutte le volte che un divieto mi sbarra il cammino: mi scanso, ci giro intorno e proseguo la mia strada. Il mondo è grande... sì, ma ripensandoci, è tutto abitato. Ogni centimetro quadrato è proprietà di qualcuno e tra qualche anno immagino che dove ora non c’è che polvere e silenzio sorgeranno uno sull’altro gli hotel.
La fuga dalla civiltà ha i giorni contati: qualsiasi fuga, anche la mia.
Scelgo la riva come ultima spiaggia e proseguo con i piedi nell’acqua che è bellissimo. In questo tratto di costa disabitato, è facile trovare in abbondanza grandi frammenti di corallo bianco, lì, dove li ha sospinti il mare, ammassati o sparsi in fasce estese lungo la riva: sembra di sorvolare un immenso cimitero d’ossa sbiancate al sole.
Sacralità del silenzio, penso: Qoelet.
Il sole martella sulla mia testa, cotta come un biscotto, che per contrasto fa apparire capelli e barba più bianchi: sembro il negativo di una foto.
Il vento ora più che mai è un sollievo benefico. Di tanto in tanto raccolgo dell’acqua di mare nelle palme e mi bagno la testa.
Questo presente mi sazia, non penso a nulla, solo guardo e cammino: Esodo.