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La forma del dialogo trova un grande sviluppo nella cultura, sia come genere letterario autonomo che come elemento interno alla comunicazione narrativa. Il dialogo fu nell’antichità greca la forma letteraria per il discorso filosofico, acquistando caratteri e finalità particolari; Platone traspose in dialogo il dibattito investigativo socratico, mantenendo la vivacità drammatica dell’oralità scelta dal Maestro. Esso si proponeva il conseguimento della verità, attraverso il confronto delle opinioni e l’osservazione della realtà. Da esso nacque il metodo dialettico, tipico del dibattito filosofico alla ricerca della verità, anche quando il dialogo rimaneva aporetico. Il dialogo animò anche altre forme letterarie, come l’epica di Omero e le parti narrative dei generi teatrali. Nella tragedia gli attori e il coro rappresentavano la vicenda mitica secondo le varie modalità della comunicazione. Passavano dalla rhesis e dal resoconto di eventi in forma indiretta alla responsione dialogica attraverso battute brevi di pochi versi(sticomitia), o addirittura di emistichi dimezzati (antilabè). Con il dialogo nelle sue varie forme, veloci o rallentate, venivano evidenziati il carattere dei personaggi nel divenire degli stati d’animo e il percorso progressivo della vicenda.
Questa seconda accezione del dialogo come conversazione ha animato l’opera narrativa nei secoli, e soprattutto il romanzo che è la forma dialogica per eccellenza della modernità. (Michael Bachtin: Estetica e romanzo ). Se nell’epica le voci costituivano un’isotopia socialmente elevata ed aristocratica, il romanzo è una polifonia di voci in senso democratico, conforme all’ingresso nella letteratura delle classi medie prima estromesse. Così, infatti, Bachtin definisce il romanzo nel confronto con i generi della tradizione. Si può dire che il romanzo nasca dalla disposizione dialogica non solo dei personaggi, ma delle sue parti interne, e nella distribuzione dei segmenti narrativi trova la sua compiuta organizzazione. Nel dialogo il narratore si avvicina alla realtà e al vissuto dei personaggi, eclissando la sua funzione autoriale; egli, infatti può scegliere di osservare dall’alto del suo piedistallo la realtà guidandola secondo le sue opinioni, oppure accogliere in toto la realtà rinunciando a guidarla, secondo le varie forme di mimesi e diegesi. (G. Genette: Figure III, Discorso del racconto ; A. Marchese: L’officina del racconto ). Proprio attraverso una disposizione adeguata delle varie forme discorsive il narratore crea il ritmo e l’armonia dell’opera. Il narratore sperimenta le varie forme del discorso diretto e indiretto, mediandole anche con l’uso dell’indiretto libero, in cui tende a conciliare l’inconciliabile, avocando a sé l’idioletto del personaggio e rifacendone le mosse.
È molto importante per il narratore realizzare le sue finalità, per accondiscendere ai bisogni del lettore, offrendogli diletto e conoscenza, come già il nostro primo narratore Giovanni Boccaccio ammoniva con la novella di Madonna Oretta. (Decameron : VI, I) Nella letteratura si rileva l’abilità dell’autore nella strutturazione dialogica, soprattutto quando riesce con la parola non solo a trasmettere la conoscenza della realtà nel suo divenire fattuale, ma anche la percezione di una realtà in absentia, non espressa, segreta, o addirittura inconscia. Egli deve utilizzare strumenti linguistici e retorici adeguati per depositare nei segni quella parte mimetica e gestuale che è propria dell’actio, cioè del discorso orale che, come ben sapeva l’oratore, coinvolgeva tutto il movimento del corpo.
Elio Vittorini, nella scrittura dei romanzi , poneva molta attenzione alla resa del linguaggio, in modo che esso recasse in sé il timbro della sua tensione e comunicasse anche quella realtà “maggiore”, sospesa e reticente che il discorso comporta; il termine conversazione è il titolo del suo più famoso romanzo, Conversazione in Sicilia , in cui sperimenta una pluralità di voci, disponendole in un ritmo musicale e melodrammatico, ora adagio, ora allegro vivace, reso ancor più dinamico mediante la reiterazione delle parole; egli, infatti, parla di tensione e di melodramma nei suoi saggi (Le due tensioni, Menabò , I e II ), ponendo al centro il ritmo dell’eloquio e la ricerca poetica della parola, reinventata e liberata dall’insignificanza dell’omologazione. I dialoghi di Vittorini, interni a Conversazione in Sicilia e al Sempione strizza l’occhio al Frejus , richiamano il ritmo veloce di un balletto in cui la parola riacquista una sua vivacità naturale e gli stessi nomi dei personaggi sono tutt’uno con la loro esistenza quasi come i dipinti rupestri, allo stesso tempo arte e realtà concreta (Coi baffi, Senza baffi, Muso-di-Fumo, il Gran Lombardo). Anche Verga deve usare espedienti narrativi per comunicare al lettore più di quanto espresso dai personaggi; ad esempio, nel cap. V de I Malavoglia , interpone tra gli enunciati di Alfio e Mena, semplici e reticenti per rozzezza e pudore, vaghe descrizioni delle nuvole che trascorrono nel cielo o degli olivi che lasciano cadere le foglie secche, per integrare l’ellissi dei sentimenti che , consci o inconsci, baluginano nella mente dei due popolani; anche le carezze rivolte da Mena all’asino di Alfio non sono altro che delle trasposizioni sulla bestia dei desideri della giovane, censurati dalla sua cultura atavica e ritenuti impudichi. Un dialogo costruito ad arte è quello tra il Conte zio e il Padre provinciale ne I promessi sposi . Manzoni, da narratore onnisciente, commenta le vicende ed intercala suoi commenti integrativi per adeguare la resa narrativa alla finalità etica del romanzo; in questo dialogo sono frequenti gli avvertimenti del narratore al lettore, perché comprenda che si tratta di due personalità scaltrite e politiche le cui parole sono ben dosate e pensate: ognuno dei due, infatti, tende all’onore della sua famiglia, quella signorile per il Conte, l’istituzione religiosa per il Padre. La rispondenza provocatoria delle battute viene resa con ripetizioni dei titoli onorifici, vere anadiplosi quando l’ultima parola di una battuta viene ripresa nell’incipit della successiva, come nell’acceso e partigiano dialogo tra Dante e Farinata.( Inferno , X) Quando non bastano i mezzi retorici, come la reticenza, la sospensione, l’allusione minacciosa e deterrente, Manzoni si cala nel dibattito con avvertimenti o con la semplice comparsa per prolungare gli effetti nell’immaginazione del lettore.
Una particolare tecnica dialogica è quella di Tabucchi, usata nel capitolo IV di Notturno indiano ; la particolarità nasce dal disinteresse al dialogo tra personaggi sconosciuti, colti in incontri casuali e in particolari momenti della vita di ciascuno: si tratta di un santone jainista che va a morire a Benares, e il protagonista, uomo occidentale, diretto a Madras e altre città dell’India profonda per una sua ricerca esistenziale, entrambi, quindi, impegnati in un pellegrinaggio personale ed interiore. Il dialogo è costituito da poche battute separate da ampi spazi, come se alla prima enunciazione ex abrupto, e quindi incomprensibile, non potesse seguire una risposta, che seguirà a distanza, quando l’interlocutore avrà compreso la traiettoria mentale dell’altro.” Cosa ci facciamo dentro queste valigie” e “Forse ci viaggiamo dentro” sono i due segmenti non correlati che si stallano come pensieri di monologhi personali, come riflessioni sull’anima che entrambi gli interlocutori vanno rimuginando tra sé.
In realtà l’enunciazione del santone suona non come una domanda, ma come una constatazione-riflessione di un soliloquio che, dopo aver impegnato il lavorio interiore, trova una solitaria via di approdo nella parola; il nostro turista, solo dopo una personale meditazione, comprende quel frammento e associa metafora a metafora. Il dialogo costruito da Tabucchi, afasico e frammentario, poggia sui silenzi più delle parole, sui vuoti e sulle sensazioni più delle volontà interlocutorie; i vuoti sono colmati dalle immagini sonnolente della sera, dalla luce verdastra della veilleuse che affila i volti, dal canto lontano dei santoni, che formano un’atmosfera più suggestiva della parola. In questa temperie religiosa ed arcana valgono le immagini e i suoni ad allacciare il dialogo interiore dell’anima. Il dialogo è un esempio della capacità di Tabucchi di lavorare su elementi musicali e poetici, per esprimere un “di più”, un’essenza interiore, una quarta dimensione, che il poeta e l’artista cercano attraverso immagine e suono. Non si tratta di saper trasferire gli espedienti dell’oralità nella scrittura, ma di isolare le parole- messaggio, le parole-metafora, le parole-simbolo, perché il lettore adegui la sua mente alla comprensione.
Per lo scrittore del Novecento, di fronte alla complessità e al relativismo della realtà, si pone la necessità di sperimentare ed innovare, ponendosi in posizione di sfida verso il labirinto viscerale del mondo, oppure di rinunciare alla comprensione, facendo parlare la realtà stessa, frammentata ed opaca com’è. Nei due filoni antitetici si pongono Calvino e il romanzo du règard. L’uno affronta la sfida rincorrendo la geometricità del cristallo contro la visceralità del mondo-palude, il romanzo dello sguardo si limita a descrivere pezzi di realtà irrelati, come si dispongono allo sguardo e alle sensazioni. I romanzi di Virginia Woolf possono essere esempio delle tendenze moderniste: da una parte soliloqui fluidi e incontrollati, tesi ad afferrare la metamorfosi e il movimento della realtà, (Le onde ), dall’altra descrizioni particolareggiate, come sequenze staccate a più piani; la realtà, nel suo aspetto dissolvente e caotico, pone in assenza il soggetto umano e ogni ideale di sublime (La stanza di Jacob ). Non è più l’alternanza armonica tra le varie forme di comunicazione a rappresentare il romanzo; le lunghe descrizioni come gli indefiniti soliloqui indicano la fatica e lo scacco dello scrittore di “tenere la vita. includere tutto... rappresentare lo spirito mutevole, sconosciuto, illimitato della vita” (Nadia Fusini: introduzione a La stanza di Jacob ).
Se lo scienziato opera in equipe e in collaborazione per un più efficace e rapido risultato, il poeta si apparta dalla società, per ascoltare un dettato che viene da lontano, da una sacralità originaria di cui la terra porta l’impronta; si tratta di quella parola originaria e vera di cui discorre Heidegger, definita (sagen, ( nell’opera (Verso il linguaggio(. Questo appartamento in veste monacale e sacerdotale, per attingere alle sorgenti del Vero, è testimoniato dallo scrittore stesso all’interno dell’opera.
Dante si appella alle Muse e ad Apollo per ricevere l’investitura dell’alloro e se ne ritiene degno per la sua vita virtuosa in una società sviata; il suo percorso è quello dell’eroe disponibile al compimento di una missione divina assegnata solo a pochi. Proust, per salvare le sue memorie dal deterioramento del tempo, si isola dal mondo, in una stanza insonorizzata dai rumori esterni; solo nel silenzio riemergono le immagini scolpite nella sua anima, facendola palpitare; come in una lastra fotografica che restituisce le tracce evanescenti delle cose, la sua interiorità compie delle associazioni impensate e scopre i nessi della sua esistenza. Joyce, dopo aver attraversato la fase delle passioni giovanili e una formazione religiosa gesuitica, scopre la sua vocazione letteraria nella forma di una vita solitaria, simile ad un esilio monacale; la vocazione sacerdotale, sfiorata e attraversata, si trasfonde in una nuova fede, conservandone le connotazioni e l’abito (Joyce; (Dedalus(). Pirandello si immedesima nel personaggio, che abbandona la dialettica delle forme mondane in una sorta di ascesi mistica, ubicata nella montagna pitagorica del mago Cotrone. Mallarmé, nella solitudine della sua scuola iniziatica, diventa il sacerdote di un Dio che si nega, concedendogli solo frammenti disallineati sulla pagina bianca.
Il laboratorio dello scrittore, dunque, può essere inquadrato ed individuato in varie immagini: è il monastero con il suo scriptorium e la sua biblioteca, tanto frequentemente evocato, un luogo di prigione imposto o volontario (Montale: La Bufera, Il sogno del prigioniero), o addirittura, per paradosso, una gabbia dove l’io kafkiano si riduce a vivere, perché è l’unica possibilità concessa dall’insensibile borghesia (Racconti).
La biblioteca è il luogo per eccellenza deputato alla scrittura e alla formazione in stretta simbiosi nella vita dell’intellettuale; Leopardi fa della ricca biblioteca di famiglia il luogo dei suoi studi e dell’intera sua esistenza; Dante si compiace di associare il patrimonio classico e cristiano, esponendo nella Commedia i libri dei suoi Autori. (Inferno,IV; Purgatorio, XXI e XXII). Quando lo scrittore viaggia per il mondo, non segue le vie turistiche, ma suoi percorsi arcani, per cogliere tra le pieghe della realtà messaggi segreti e misteriosi. Tabucchi sceglie sempre vie marginali, come l’India arcana e mistica, alla ricerca della sua identità in seno alle infinite possibilità del mistero cosmico.
Tutto il mondo diventa una grande e infinita biblioteca, priva di centro, un luogo labirintico come la Babele di Borges (Biblioteca di Babele in Finzioni); qui le lettere della Verità non si offrono al viaggiatore tra i mille specchi del non-senso, e l’Aleph emerge in un momento di grazia e di improvvisa simultaneità.
Possiamo comprendere come la biblioteca dantesca potesse offrire una formazione solida ed ordinata, con delle certezze disposte dalla Grazia divina, mentre quella dell’uomo contemporaneo, dispersa nella materialità terrena, non offre un varco verso la Verità; già nel Cinquecento, inizio della modernità, il microcosmo ariostesco si presentava come luogo decentrato e straniante dove ogni cavaliere si aggirava di qua di là, di su, di giù, insensatamente. Oggi il laboratorio dello scrittore non può essere che luogo di debole attesa, alieno e sempre più separato dalle promesse della civiltà tecnologica, un luogo conseguentemente di protesta verso i paradisi artificiali e i suoi credenti.