Potranno le immagini di stragi che affollano le nostre giornate rendere il livello di orrore raggiunto in questo nostro tempo? Riusciremo a cancellare dalla nostra memoria i morti e il sangue per le strade, o le macerie di case simbolo di distruzione di vite spazzate via per la becera follia di pochi individui? Eppure questo è ciò che i notiziari ci restituiscono quando decidiamo di accendere la Tv per tenerci aggiornati sui principali avvenimenti. È una dolorosa routine a cui ci sottoponiamo sapendo già che verremo sommersi da scenari di morte e che la “guerra”, che consideravamo come anacronistica e superata, ha finito invece per contagiare a macchia d’olio diverse parti della terra.
C’è una foto che ha fatto il giro della rete negli ultimi tempi, un’immagine che è stata a diritto ribattezzata La Pietà di Gaza e che spinge ad una riflessione sulla fragilità umana. È la foto di una donna palestinese, accovacciata per terra, mentre stringe a sé il corpo della nipotina morta, avvolta in un sudario bianco. Opera del fotoreporter palestinese della Reuters Mohammed Salem, pur non mostrando i visi dei due soggetti, la foto ricorda moltissimo il capolavoro di Michelangelo per la sua plastica drammaticità. L’arte riesce da sempre a descrivere le reazioni dell’animo umano di fronte alla realtà. Molto spesso il linguaggio artistico riesce ad andare oltre ed è qui, proprio in questo “oltre” che la mente vacilla, si spaura di fronte alla verità che colpisce, come una lama affilata. L’orrore della guerra in tutta la sua portata è un messaggio inequivocabile che non può più essere evitato: questa foto parla a tutti noi.
Scattata il 17 ottobre 2023 all’ospedale di Nasser di Gaza, la foto ritrae Inas Abu Maamar, una donna di 36 anni, con una veste azzurra, che ricorda esplicitamente il colore associato a quella della Madonna, mentre abbraccia il corpo senza vita di Saly, sua nipote, di cinque anni, coperta da un lenzuolo bianco, simbolo di innocenza e purezza, uccisa insieme alla madre e ad una sorella da un missile israeliano piombato sulla loro casa di Khan Yunis. Il forte contrasto di colori, sicuramente non voluto dalle protagoniste, si carica di una forte valenza in cui significante e significato si combinano definitivamente come in una soluzione chimica.
Le due figure appaiono così in un simbiotico abbraccio, una tragica unione di anime che si dichiarano inseparabili all’osservatore. I corpi ci parlano dell’indissolubile legame tra la vita e la morte, un tipo di relazione che non si offre come naturale passaggio quanto piuttosto come un’attrazione da calamita che trascina. La donna è infatti simbolo di dolore, condizione che non si riconcilia più con l’esistenza. Inas Abu Maamar a stento riuscirà a superare la morte della nipotina: ne verrà piuttosto risucchiata.
Difficilmente una foto, pur così drammatica, potrà contribuire a sensibilizzare le coscienze. Mai come in questa fase dell’umanità, infatti, i diversi leader si dimostrano ciechi e ottusi, impegnati in giochi di guerra illogici e ignorando sistematicamente le conseguenze delle proprie azioni e decisioni sul futuro dei popoli. Gli individui sono come pedine, sia in quella che Papa Francesco continua a chiamare la “martoriata Ucraina” che nella striscia di Gaza o in quei paesi in cui il conflitto si sta tragicamente estendendo.
Avremmo certamente fatto a meno di una nuova “Pietà”. Dopo aver ammirato per secoli il capolavoro di Michelangelo ed esserci immersi nel dramma di una madre che ha perso il proprio figlio, non ci aspettavamo certo che quel dolore che appartiene alla storia dell’umanità finisse per vestire abiti nuovi pur mantenendo intatto il drammatico colore della sofferenza.