Se bastassero le parole a dar conto delle ingiustizie e le brutture della realtà che ci circonda, allora chi scrive potrebbe diventare necessario, indispensabile in una società che ha perso valori e punti di riferimento. Eppure i poeti e gli artisti appaiono oggi sempre più isolati e ghettizzati. A loro si preferiscono altre e più affascinanti figure, come gli youtubers e gli influencer. Le parole hanno finito per diventare inutili, vuoti contenitori privi di significato in una realtà dominata dalla tecnologia delle immagini e delle apparenze.
Il ruolo del poeta ha attraversato i secoli subendone i necessari cambiamenti e le trasformazioni sociali e culturali. La sua funzione è stata sempre comunque centrale, un necessario trait d’union tra il contingente e l’anima, quasi una mediazione per riuscire a comprendere fino in fondo la realtà. Ma oggi, cosa chiediamo a chi scrive? Possono ancora le parole riuscire a scuotere le coscienze?
La formazione del mondo moderno, tra il XVIII ed il XIX secolo segue l’evoluzione del rapporto complesso tra letteratura e società, relazione tutt’altro che univoca che si veste di multiformi sfaccettature e che può essere definita in svariati modi. Scontrandosi con la razionale e civile presenza nella contemporaneità, tipica dell’intellettuale illuminista, il poeta romantico assurge al ruolo di vate, unico in grado di ricreare condizioni di penetrazione del reale per riuscire a toccare l’ideale al di là della patina delle consuetudini. E se il poeta William Wordsworth si assumeva il compito di trasfigurare la natura fondendo il suo mondo interiore con l’esterno e attribuendo il fascino della novità alle cose di tutti i giorni, per Samuel Taylor Coleridge, al contrario, il compito di chi scrive è di rendere credibile il “sovrannaturale” attraverso un uso che solo il poeta riesce a fare dell’immaginazione, potere divino e creativo per cui esistono due livelli, primario e secondario. Possiamo allora dire che le parole del poeta, considerata la provenienza divina, possono davvero operare una trasformazione sociale e civile?
Lo scrittore inglese P.B.Shelley, nella sua “Defence of Poetry” del 1821, definisce i poeti “misconosciuti legislatori del mondo” per la particolare abilità di legare bellezza e verità e rendersi promotori di ordine e profeti di una possibile riforma. Solo il poeta può stabilire un vero contatto con la realtà attraverso il linguaggio e trasmetterne il significato autentico. Le sue parole si commisurano, così, per l’innata capacità d’azione, simboleggiata dall’energia anche distruttrice del vento. La Verità è quindi Bellezza, la Bellezza è Verità: questo semplice volo sembra trasportare, da un lato, verso le più alte espressioni di Pindaro; dall’altro, verso una necessaria innovazione. A tal proposito si sono scritte poesie dall’alba dei tempi ma nessuno si è fermato ad aspettare un’epifania di un tale assioma. L’altro grande romantico John Keats parlerà però, piuttosto, di una verità ritrovabile nel mistero dell’atto creativo e nel silenzio dell’arte attraverso i secoli: la sua “Negative Capability” (capacità negativa), ovvero la coscienza e l’accettazione dei limiti umani, si riferisce proprio a ciò che non è svelato e può scatenare l’immaginazione. Il mondo odierno, la nostra società, valorizza davvero la funzione umana e salvifica della bellezza?
Da quando il poeta ha cominciato ad estraniarsi dalla società, rinchiudendosi nella torre d’avorio di un egoistico amore dell’arte per l’arte? Cosa ha spinto l’esteta decadente a rifiutare qualsiasi implicazione moralistica e didattica per coltivare un puro mondo di bellezza in sé che non si lasciasse corrompere e contaminare dal volgare contatto con un’esistenza borghese e materialistica che aveva posto l’immediato guadagno economico come interesse primario? Probabilmente l’intellettuale da fin de siècle si rende conto di non riuscire ad insegnare più nulla a una società ipocrita che cura unicamente le proprie finanze. Meglio allora coltivare il piacere dei sensi nel tentativo di arrestare l’attimo fuggevole. Pensiamo a Huysmans di “A Rebours” o a “Il Piacere” di Gabriele D’Annunzio. Ecco allora che la forma prende gradualmente il sopravvento sul contenuto ed il poeta vate dell’ottocento si spersonalizza in atteggiamenti che trascendono la parola per guardare al di là.
Pochi poeti ed intellettuali sono riusciti come il Premio Nobel T. S. Eliot ad esprimere il tormento della terra del nostro novecento. Il senso di caos e desolazione trasuda attraverso i versi di chi può essere considerato un vero restauratore della teoria poetica. La parola poetica trascende il reale, l’io lirico si oggettivizza in una vera e propria unified sensibility (sensibilità unificata) che mette in correlazione cuore e intelletto. “La poesia non è libero sfogo dei sentimenti ma evasione da essi; non è espressione della personalità ma evasione dalla personalità” (T. S. Eliot, Tradition and the Individual Talent). Poeta della condizione esistenziale, dunque, proprio come Dante, umanista dilaniato dal dramma della scelta che rappresenta il suo ed il nostro personale inferno del caos. Artista, anche lui, non più in grado di dare risposte all’interno della nostra “Terra Desolata” consapevole che tale ruolo non compete più al poeta in quanto tale.
Ma non è forse desolata la nostra terra, quella del XXI secolo del riscaldamento globale e delle troppe e anacronistiche guerre? Possono, ancora oggi, i poeti caricare di valenza sociale i propri scritti rivestendo conseguentemente scatole d’appartenenza civile e attivando contesti di scelta consapevole? La poesia sociale che diventa dunque civile. Non si tratta di invadere campi che non competono al fare poetico. Non si tratta di prendere posizioni, di parlare in modo esplicito. Lo scrittore George Orwell che nei suoi romanzi rivendicò una modalità di scrittura alla Charles Dickens riuscì a veicolare il proprio messaggio “civile” attraverso simboli, immagini e la realizzazione del paradossale, giungendo ad incidere il proprio nome all’interno delle più grandi distopie mai inventate in letteratura.
Le parole possono dire e non dire, sfiorare il contingente e toccare appena il divino, trascendere il reale mentre cercano contemporaneamente di scrivere una pagina importante nel cammino della collettività. Il linguaggio umano, arma potente nelle mani del Prospero della Tempesta di William Shakespeare a detta di Calibano, è uno strumento di potere come pochi. Perché allora non indirizzare quest’arma verso fertili e più produttivi bersagli?
Che sia civile o sociale il ruolo della poesia diventa sempre più vitale per il poeta restituire pregnanza di contenuto alla parola, senza necessariamente schierarsi se non in nome della pace, verità e libertà. La parola è di per se stessa libera e nasce come tale, dato che è costruita ancor prima che attraverso ciò di cui parla. La parola può ancora rivendicare il ruolo di permettere di vedere al di là, senza imposizioni o dogmatismi; può attivare dubbi e mettere in discussione certezze. Il poeta ha quindi, oggi più che mai, il ruolo etico e morale di “dire” ed “asserire”, riuscendo ad attivare livelli sconosciuti di pensiero. Per usare le parole del grande Montale, in conclusione, è necessario pretendere che il poeta non solo fornisca parole ma indichi, al contrario, la strada difficile e tortuosa verso “ciò che siamo e ciò che vogliamo”.