Come vale per il cibo, c'è un tempo per immagazzinare e un momento per espellere. Eppure la creazione poetica non può ridursi alla fase della mera espulsione. La mela che favorisce la contesa e la digestione non si profila come malum: è il bonum, la longa manus dell'intenzione e della ragione.
L'emozione poetica deve avere disciplina per avere ragione dell'istinto. L'istinto poetico è animale, la ragione poetica è distintivamente umana, propria dell'animo poetico nel più ampio insieme degli animi emozionati o accesi dal sentire. Il sentire può essere comunicato da tutti a tutti. Oltre quella soglia condivisa che ci rende animali tra gli uomini, c'è il poeta che discerne e che quindi discrimina, selezionando pensieri e parole da tacere e quelli da esternare, nel modo ideale o, in ogni caso, nel modo opportuno al mondo in quel momento.
Le parole non sono ad libitum, ma l'esito nel senso resultativo, come nell'accezione primigenia di “schema” dalla radice di grado zero del verbo “avere” greco: ciò che c'è perché rimane e che dunque ha facoltà di esserci pienamente, senza orpelli, senza alcunché di posticcio. Le parole non sono surrogati dell'essere: nella forma che predilige la brevità sono l'essenza, sono il tutto che insiste con il proprio peso specifico in un'epoca attraverso l'attimo mefistofelicamente fermato sulla pagina. In quanto forma ultima della mediazione possibile attraverso la ratio e lo sguardo interiore del poeta, la poesia è verità ridotta e plasmata, lucida e lucidata, non mascherata. Poesia è meditata disseminazione di ciò che non si affida alle correnti, ma all'humus del tempo, padre della memoria.
Non siamo, il poeta non è un Omero, che probabilmente non è stato neanche lui nella dimensione di singolo, quando la poesia non era in balìa della creazione e della fruizione solipsistica dell'individuo. In un mondo, in un tempo senza Dio e senza il divino, la poesia non è e non può essere “theia mania”, ma ha il dovere di far i conti con il residuale pensiero, in cerca di un umile ubi consistam. Se è creazione, deve presupporre un'abilità e una tecnica più o meno visibile. Il creatore agisce con intenzione, non è trascinato dal solo entusiasmo. Se così fosse, per esser “pieni del dio” basterebbe darsi al bere. Ma il sodalizio del “nunc est bibendum” filtrato da Alceo fino ad Orazio insiste realizzandosi solo nell'occasione condivisa.
Che cosa c'è oggi di genuinamente condiviso che non passi attraverso l'infrastruttura dei social? Nell'era delle piattaforme dai cuori e dai rancori facili, il seguire ha scalzato il partecipare; il bannare ha dato forma intenzionale all'out of sight out of mind. Che cosa resta della poesia (anche tragica e comica) che non sia per le masse e che non sia mosso dalla corrente? Poco o nulla. Al largo emergono il facile istinto, il buon senso di pessimo gusto, osannati dalle turbe: sperimentare sugli ossidati relitti dell'anima (le parole) vale più che misurarsi col peso impercettibile del presente. E così, senza bisogno di affogare, si continuano ad osservare con lo stesso primigenio stupore sia il mare che il male.