Viviamo in tempi di pensiero debole. Giovani e meno giovani fanno il surf su un oceano di futilità.
La televisione fa la mentalità comune. Ma, come tutti i fenomeni a grande diffusione, la sua è una visione appiattita sul minimo comune denominatore; una rappresentazione basata sull’ovvietà, sulla realtà immediatamente osservabile, sui commenti più corrivi e politicamente corretti.
Per la quotidianità ciò è sufficiente. Ma nel fondo del nostro animo si annida l’insoddisfazione. Noi sappiamo che l’apparenza superficiale non è tutto.
Viviamo in un mondo antropizzato, malamente antropizzato, che comunque ci occulta la realtà sottostante.
Noi non percepiamo il mondo com’è, ma per come siamo fatti noi; la nostra è una percezione metamorfica.
L’insicurezza ontologica è la nostra condizione.
Ma anche in quello che percepiamo con i nostri sensi l’abitudine ci ottunde la vista come una cateratta.
Noi riteniamo di vedere meglio con la luce del sole. Ma se il giorno durasse ventiquattr’ore su ventiquattro noi saremmo indotti a credere, al primo impatto sensoriale, che l’universo sia circoscritto a questo pianeta terracqueo sul quale poggiamo i piedi. È solo quando la luce del sole si spegne che il cielo stellato ci dà una qualche percezione dell’immensità dell’Universo.
In proposito mi viene in mente una riflessione di Dostoevskij: “Il cielo era stellato, tanto che, dopo averlo contemplato, ci si chiedeva se sotto un cielo così potessero vivere uomini senza pace”.
Peraltro noi non conosciamo – e forse non conosceremo mai – il 95% dell’Universo, composto di materia e energia oscure, che sfugge a qualsiasi osservazione.
In questo momento noi crediamo di stare fermi, con i piedi ben saldi su una superficie immobile. In realtà stiamo viaggiando a 107mila chilometri all’ora, ch’è la velocità alla quale la terra gira intorno al sole; e a tale velocità devono aggiungersi 720.000 Km all’ora, ch’è la velocità di traslazione del sistema solare, nonché la velocità di fuga della nostra galassia.
Intanto il tempo si porta via con sé, inesorabilmente, tutto quello che abbiamo vissuto e quello che avremmo voluto vivere.
“Siamo come i naviganti che, per quanto solchino il mare, non possiedono il tratto che lasciano dietro di sé più di quanto non possiedano il tratto che devono ancora solcare”, scriveva Senofonte.
Eppure, quanto più la realtà ci sfugge, tanto più sentiamo il bisogno di preservare l’unicità del nostro vissuto, delle nostre emozioni, delle nostre attese seminconsce.
Forse la vita è una piroetta nel vuoto – come dice Cioran – ma sentiamo il bisogno struggente di rivivere la suggestione di un’alba, l’incanto di un innamoramento, la sorpresa che spalanca gli occhi di un bimbo.
Non è solo il vissuto che preme dentro; anche il non vissuto, la non vita, premono da dietro le quinte per lasciare una qualche impronta.
Invero “la funzione fondamentale della scrittura sembra essere quella di metterci in comunicazione col nostro inconscio” (Carlo Di Lieto, Pirandello e psicanalisi , Marsilio.). “C’est ce que je porte d’inconnu à moi-même que me fait moi” scriveva Paul Valéry.
La poesia tende sempre all’oltre, all’altro dal sé consapevole.
Così il mare si protende instancabilmente a oltrepassare l’orizzonte, pur restando confinato in se stesso.
In certi momenti ci sembra che la poesia possa fare questo, possa dilatare la nostra percezione, possa fare da tramite tra la vita e la non vita, tra il reale e il fantastico (Di Lieto, ivi. ), come i sogni in prossimità del risveglio sembra che stiano per farci una rivelazione.
Fissiamo in alcuni segni sul foglio la trasposizione dell’emozione che ci ha colpiti, delflash di bellezza che ci ha abbagliati, dell’oscuro preannunzio di un oltre da sé.
L’emozione, il flash sono autentici, il poetante li ritrova nei versi che ha scritto, come Pollicino avrebbe riconosciuto nelle molliche di pane seminate i segni che tracciavano la via del ritorno, se gli uccelli non le avessero mangiate.
Ma gli uccelli non le hanno riconosciute come segnacoli, le hanno ingoiate. Allo stesso modo la comunicazione pseudopoetica quasi sempre fallisce; fallisce nel senso che il poetante non riesce a rendere partecipe il lettore, l’ascoltatore, di quello che ha intravisto così impressivamente.
Una sequenza felice balena e ci sfugge dalla penna. Che frustrazione, che senso di privazione aver avuto l’impressione di cogliere qualcosa di vero, di unico, e sentirselo sfuggire di mano mentre stava per prendere forma!
Tuttavia la poesia non può essere autistica; la poesia è un colloquio, ha scritto Heidegger; e questo significa che stabilisce un rapporto binominale tra autore e lettore, tra autore e ascoltatore. Per funzionare deve destare nel recettore una risonanza.
Ma come?
La poesia non comunica in modo diretto, non fa esposizioni o ragionamenti.
La poesia comunica attraverso una combinazione originale di parole consuete prefigurando un’evocazione che reinvergina una percezione latente.
Ma perché la combinazione riesca, come perché una sequenza di note si traduca in un accordo felice, occorre una piccola magia; occorre che una dea pietosa ci venga in soccorso con un suggerimento che suscita un palpito di gioia.
In poesia il detto non esaurisce la sua potenzialità espressiva, la lascia sviluppare per induzione.
Il poeta a volte addirittura dice una cosa per farne intendere un’altra.
Ventisette volte Garcia Lorca ripete Eran las cinco en punto de la tarde nel suo Llanto por Ignacio Sánchez. Erano le cinque a tutti gli orologi.
Non lo fa certo per dirci l’ora.
Ma niente, come quella iterazione, ci rende l’emozione della morte prematura e improvvisa di un giovane uomo. Per Ignacio le lancette dell’orologio si sono fermate alle cinque del pomeriggio e tutto il mondo è venuto meno per lui in quell’istante. Grazie a quell’iterazione, a quell’evocazione, anche noi lo sentiamo nel suo accadere.
Una piccola magia, o almeno una sorta di alchimia, si è realizzata.
Quando riescono, la poesia, l’arte, ci rivelano qualcosa che guardavamo con gli occhi di ogni giorno senza vederla; qualcosa che inconsciamente attendevamo.
Non accade di frequente, ma nel momento in cui questo avviene, la poesia, l’arte, consentono uno scambio profondo, un’interazione di personalità simile a quella che si realizza tra due innamorati, i quali si compenetrano. Mittente e destinatario, sconosciuti l’uno all’altro, sono qui, adesso, compresenti – magari a distanza di secoli – in un’interazione che estrinseca l’uno e interiorizza l’altro.
Saffo che invocava le Pleiadi e noi che guardiamo oggi quella costellazione, siamo contemporanei.
Lo scultore che più di duemila anni fa scolpiva i guerrieri di Riace e noi che, per un dono del mare, li sfioriamo oggi con gli occhi e con le dita, siamo contemporanei.
Beethoven che duecento anni fa scriveva le sue ultime note su uno spartito e noi, che siamo oggi pervasi dalla sua musica, siamo contemporanei.
È questo, questo nonnulla, che fa l’arte, che fa la poesia: in un momento felice ci distoglie dalla camera premortuaria della nostra quotidianità; è come se ci sottraesse per un po' alla spietata irreversibilità dello spazio-tempo.