Sono nato ad Ostuni, splendida cittadina in provincia di Brindisi, più di sessanta anni fa. Qui da sempre ho vissuto e vivo con la mia famiglia. All’età di nove anni, così come si usava allora, durante le vacanze scolastiche, per levarmi dalla strada, mia madre, che aveva origini contadine, pensò bene di mandarmi a bottega per imparare il mestiere di sarto.
Un mestiere più leggero pensava, avendo provato sulla propria pelle la fatica del lavoro nelle campagne. L’esperienza fu così positiva che mi invogliò a continuare, tanto che negli anni seguenti, nel tempo libero che mi lasciava la scuola, continuai a frequentare la sartoria. Conseguita la licenza media, mi dedicai a tempo pieno ad imparare un mestiere difficile, ma che immaginavo potesse avere un futuro.
Questa premessa per dire come un progetto di vita, coltivato con impegno in età giovanile, per motivi non dipendenti dalla propria volontà, possa essere abbandonato per iniziare un lavoro di cui nulla si conosce.
I primi anni ‘70 videro in tutto il paese l’esplosione della moda pronta e il mestiere del sarto perse, giorno dopo giorno, il consenso di una buona parte degli italiani che da quel momento in poi ebbero la possibilità di vestire con abiti pronti già confezionati a prezzi concorrenziali. Così a ventidue anni, terminato il servizio militare, spinto dalla necessità e dagli eventi, abbandonai un mestiere che mi appassionava e per imparare il quale avevo impegnato gli anni migliori della mia gioventù. Dopo vari tentativi per cambiare lavoro, mi sono ritrovato ferroviere, mio malgrado.
Guardiano di un passaggio a livello della linea Lecce-Bari: all’orario prestabilito del passaggio dei treni, aprivo e richiudevo con un arganello a mano, ben quattro passaggi a livello. Imprigionato in una garitta di cemento due metri per due, nella buia campagna, senza servizi igienici, calda d’estate e gelata d'inverno. La luce di un lume a petrolio illuminava a malapena una condizione di lavoro che ancora oggi rivivo quasi con terrore. Quindici lunghissimi mesi, passati a fare un lavoro alienante che svolgevo con sofferenza e senza entusiasmo. Sembrano situazioni di un tempo lontanissimo, invece si parla della prima metà degli anni ‘70: di quel periodo ricordo ancora il passaggio di tanti treni straordinari provenienti dall’Europa del nord, carichi di emigranti che viaggiavano con intere mezze giornate di ritardo.
Con la primavera dell’anno seguente, mi giunse la notizia di essere vincitore di altro concorso esterno e, dopo tre mesi di formazione come Gestore presso la Scuola Professionale di Bari, fui assegnato a Villa Castelli, una stazione senza strada di accesso cui si arrivava percorrendo stradine sterrate attraverso vigneti coltivati ad uva da tavola. Subito mi accorsi che le condizioni di lavoro erano cambiate di poco, la sola differenza, con la precedente qualifica, consisteva nel fatto che l’ambiente lavorativo era più spazioso ed era illuminato dalla corrente elettrica, ma le incombenze erano simili, ero da solo ad operare nell’aperta e buia campagna di contrada San Barbato, questo il nome originale della stazione, che aveva cambiato denominazione per l’interessamento di un podestà del luogo negli anni venti.
Villa Castelli è una stazione posta sulla linea Brindisi-Taranto, una linea a binario unico che partendo dalla stazione di Brindisi Centrale porta a Taranto attraversando l’abitato delle città di Mesagne, Latiano, Oria, Francavillla Fontana e Grottaglie. Su quella linea ho visto circolare i treni con cento porte, così erano definiti i treni locali con i sedili in legno; il riscaldamento, a vapore, era assicurato da un carro con caldaia alimentata a carbone. A quel tempo, la linea era esercitata con Dirigente Unico, in pratica un solo Capo Stazione, a mezzo telefono da un posto di Brindisi, con registrazioni scritte, comandava la circolazione dei treni sulla linea.
Il maltempo, nei mesi invernali, attaccava molto spesso con scariche elettriche quelle linee telefoniche che viaggiavano su fili esterni, provocando di conseguenza l’interruzione della circolazione sulla linea, fra le reiterate proteste dei viaggiatori. Il Gestore era la mano operativa del Dirigente Unico, a lui era affidato il compito manuale di disporre gli itinerari per il transito o la successione dei treni ed il loro incrociarsi nelle stazioni della tratta, manovrando a mano i deviatoi posti ai lati delle stazioni.
Alcune stazioni, in particolare quelle di Latiano e Mesagne, avevano giardinetti che traboccavano di colori, non c’era sposa di quelle città che non venisse ad immortalare il giorno più bello della sua vita facendosi fotografare fra quei fiori profumati posti nelle aiuole che il personale di servizio aveva reso così godibili. Per molti anni, queste due stazioni, risultarono premiate in un concorso indetto dalla Sede Superiore, che giudicava gli impianti meglio curati. In quelle stazioni ho passato anni felici; il lavoro, pur impegnativo, mi permetteva di intrattenere relazioni umane con molti viaggiatori, alcuni dei quali divennero miei amici ancor prima di essere semplici clienti delle ferrovie.
Qualche anno dopo, con l’avvento delle nuove tecnologie, la circolazione su quella linea fu trasformata, il Dirigente Unico scomparve per fare posto ad un Dirigente Centrale Operativo (D.C.O.) che, azionando pulsanti e tasti, disponeva direttamente gli itinerari e i segnali di via libera ai treni. Al personale di quelle stazioni furono assegnate nuove incombenze e fu trasferito altrove, così per quelle stazioni non ci furono più premi.
Il matrimonio e la nascita del primo figlio furono il coronamento della storia d’amore con la compagna della mia vita, alla quale va la mia eterna riconoscenza. Lei ha saputo allevare i nostri tre figli, mentre io univo l’impegno lavorativo allo studio per migliorare la mia condizione, così, approfondendo la mia preparazione, dopo qualche anno, risultai idoneo a ricoprire la qualifica di Capo Stazione nella mia città.
Pensavo di essere finalmente riuscito ad avvicinare la sede di lavoro alla residenza della mia famiglia. Fu vana illusione. Essendo il più giovane, mi toccava ancora fare la valigia per coprire i turni nelle stazioni fra Bari e Brindisi, a Mola di Bari, Bari Torre a Mare, Polignano, Monopoli, Egnazia, Fasano, Carovigno, San Vito dei Normanni. Nei mesi estivi per alcuni anni ancora ritornai a Grottaglie, in una piccola stazione con un piazzale angusto, dove lavorai alla partenza di treni carichi di uva da tavola destinata ai mercati esteri. Per mesi una babele di persone, in quella stazione, lavorava ad approntare, caricare e spedire una merce che oggi viaggia invece su TIR caricati direttamente nei vigneti.
Ho ancora impressi nella memoria tanti caldi pomeriggi estivi in una assolata stazione senza l’aria condizionata, attaccati da una quantità di mosche. Con pochi colleghi, ma con tanto impegno, riuscivamo a comporre e a far partire due treni di carri Interfrigo per le destinazioni più improbabili dell’Europa del nord.
Gli anni ‘80 furono per me anni di intenso lavoro, tante trasferte e tante privazioni mi aiutarono a realizzare il sogno di ognuno, l’acquisto di una abitazione di proprietà per la mia famiglia.
Dagli anni ‘90, il mio lavoro di Capo Stazione è proseguito nella mia amata città, con turni alternati di pomeriggi, mattini e notti, comprese tante feste di Natale, Capodanno, Pasqua e Ferragosto passate in servizio. Il Capo Stazione, in quegli anni, all’impegno nelle attività di movimento dei treni, aggiungeva quello dell’emissione dei biglietti per ogni destinazione, la tassazione e svincolo delle spedizioni del collettame e dei carri, le prenotazioni, le informazioni ai viaggiatori. Ricordo ancora le lunghe code alla biglietteria, nelle ore di maggior traffico. La stazione ferroviaria poteva considerarsi una piazza, tanta erano le persone che la frequentavano per i più svariati motivi. Oggi, invece, da un posto centrale, il Capo Stazione manovra apparecchiature sempre più complesse che comandano intere tratte ferroviarie. Le piccole stazioni di Puglia oggi sono desolatamente vuote, è scomparsa quella folla di persone che le frequentava.
Quegli anni sono volati in un batter di ciglia, i figli sono cresciuti, hanno studiato e si sono realizzati nel lavoro e mi hanno regalato il piacere di essere il nonno di due splendidi nipotini.
Il tempo che passa però lascia i suoi segni sul fisico di ciascuno, le notti lavorative diventano lunghe e stressanti e il lavoro, a seguito delle trasformazioni delle Ferrovie, diventa ogni giorno più alienante. Per questo, qualche anno fa, avendo raggiunto i requisiti per la pensione, ho deciso di lasciare l’Azienda che mi ha permesso di vivere la mia vita come meglio non avrei mai immaginato.
Oggi sono un uomo felice, dedico il mio tempo alla famiglia, coltivo gli interessi più vari che vanno dallo scrivere testi in vernacolo, all’organizzare il tempo libero dei miei ex colleghi, quale responsabile al turismo del Dopolavoro Ferroviario della mia città.
A volte ritorno indietro con la memoria e mi accorgo di non avere rimpianti. Mi domando come sarebbe stata la mia vita se avessi continuato il lavoro di sarto.
Vivendo per tanti anni sui binari di mezza Puglia, ho assistito alle trasformazioni di un’azienda che negli anni è passata dalla manovra a mano degli scambi, alla manovra degli stessi scambi a distanza di centinaia di chilometri; ho visto circolare sui binari quei lenti treni Centoporte e sfrecciare i moderni treni per i pendolari, le vecchie carrozze piene di pulci e le veloci pulite Frecce bianco/rosso/argento di oggi. Ho conosciuto persone provenienti da ogni parte della Puglia che con me hanno lavorato negli anni: di loro conservo il ricordo, del loro vissuto quotidiano, di pensieri, battute, racconti…
In conclusione posso affermare, di aver vissuto felicemente gran parte della mia vita, con la grande famiglia dei ferrovieri, sui Binari di Puglia.