Edipo è l’occidentale errante che, con i suoi piedi piagati, attraversa le “regioni” dell’uomo. Davanti alla Sfinge egli può non rispondere: salvarsi da un orrendo destino, spezzare il fato che così lo ha pre-destinato. Ma Edipo vuole andare oltre, consumare il disegno di un’oscura divinità, non contraddirla. Diventa Re, ha gloria, domina incon-trastato dopo essersi macchiato del sangue paterno, seppur innocen-temente, si ricongiunge alla madre (quale affinità con l’Attis di Catullo). Diventa, Edipo, auto-punendosi, cie-co.
La follia di Edipo di seguire la trama della predestinazione: l’intelligenza che vuole scoprire il martirio del-l’uomo come unica soluzione. Il de-siderio del grembo materno, la nostalgia di un “paradiso perduto”, la pace effimera, il dominio su Tebe e l’uscita, poi storica di tale città dalla Storia.
E il sacrificio di tale orrore: la cecità (Edipo a Colono, Edipo Re - il soffrire l’esistenza e l’insegnamento di Sofocle!). Un passo indietro: perché lo spirito omerico non ha fermato Ettore alle porte Scee?
Non morendo Ettore, Omero avrebbe salvato pure il “suo eroe”, Achille. Tutto ciò non è avvenuto come per una sorta di adorazione del dolore: lo spirito di conquista e di autodistruzione che nasce dallo spirito greco. L’uomo greco, come una tragedia o come un’opera lirica o epica, ha una trama ben precisa, già segnata. Tutto serve – in fondo – per dirci il disequilibrio esistente il quale si placa momentaneamente con la volontà di dominare gli eventi: l’illusione di dominio in quanto gli eventi si ripresenteranno nuovamente e la lotta del divenire tralascerà l’animo dell’essere umano.
Eventi che fluttuano: si basano, in nuce, su ciò che crediamo certo, oggettivo, ma non è per nulla né certo né oggettivo. Sono eventi bifrontali: da un lato, solidi come la terra sotto il peso del corpo, dall’altro sull’orrore del nulla (horror vacui) che i greci “tentano” d’allontanare. Non ci si accontenta di affermare che tale albero è di legno perché già nella proposizione citata c’è un’affermazione, che ha implicito ciò che non è (ciò che è non è legno). Il concetto di legno esclude l’altro dal legno. Ogni giudizio ne esclude un altro: il giudizio come confronto ma anche come esclusione di altro concetto.
In Parmenide “l’essere è in quanto è e non è possibile che non sia” (DK. 28, B2). L’Essere (to ón estin) è la sola realtà: pensare il non essere, il nulla è impossibile.
I principi d’identità e di non contraddizione e del terzo escluso (A=A; A-non è Non-A; Non posso essere vivo e nel contempo morto) sono ferrei, ma ciò non impedisce all’uomo di pensare il Nulla egualmente (Parmenide è importante perché nei brani pervenutici apre la questione del Nihil). Influenzato molto da Parmenide, dal filosofo di Elea, è Platone che a lui dedicherà un dialogo. Platone comunque non è che “fermi” il divenire semmai, proprio mettendo al sicuro nell’Iperuranio, le forme immutabili, lo ammette implicitamente anche se ingloba il Nulla nell’ Essere. Ora ciò che comporta da un lato, l’ammissione di concretezza della cosa ( un uomo, un cavallo...) ma tale mi sfugge nel divenire eracliteo che tutto nientifica. Platone ferma nelle idee immutabili (umanità, bontà...) ciò che costituisce il concreto: il vero immutabile in quanto vero. La cosa c’è, la troviamo, ma non sappiamo da dove possa venire: ci appare come dal nulla.
E la cosa, qualunque essa sia, muta, cambia, per poi eclissarsi in modo subitaneo come subitaneamente ci si è presentata, data. Solo l’Idea riesce a immortalarla. Come un “oggetto” qualsiasi, l’uomo vaga dal nulla alla concretezza per poi sparire, di nuovo. Il ciclo vitale, biologico [nascere-mutare (crescere) e, quindi, morire] rispecchia il concetto del divenire.
Dal Nulla veniamo, cambiamo, mai siamo eguali a noi stessi per poi sparire improvvisamente così come siamo venuti, cosi nel Nulla svaniamo.
Il Vangelo ci dice con sicurezza (“in verità vi dico”) che rinasceremo, nasceremo di nuovo (“episodio di Gesù e Nicodemo”) ma, nel contempo, dobbiamo crescere (“il seminatore attende la crescita del grano e dell’erba dannosa indifferentemente”) e, comunque, esser pronti prima di entrare nel Regno (estote parati), non agire come le vergini stolte, di non trovarci impreparati quando verrà l’ultima nostra ora. Al nulla si dà significato escatologico: il Nulla s’ammanta di divino. Invece del Nulla, c’è Dio: da Dio veniamo e a Lui ritorniamo. Passiamo nel mondo, questo è certo. In tale iter momentaneo, possiamo svolgere l’azione di “occhi del e sul mondo”, di sentinelle di questo mutamento (il Cristianesimo però propone il credere e agire con amore il quale da eros diviene agape).
Nessuno è immortale; comunque lascia un vuoto quando diparte: anche lo “scemo del paese” lascia tale vuoto in quanto la nostra vita si basa su tanti «io» che tendono d’appropriarsi di ciò che c’era e non c’è più. È il cosiddetto atteggiamento della perdita luttuosa che ognuno ha modo – purtroppo – di sperimentare. Può essere oggetto di perdita l’amico o un conoscente. Meglio di ogni psicologo è Proust ad insegnarci quanto sopra. Non più un Io “monarchico” ma tanti “io” (già proposti dal medico-philosophe Cabanis). Albertine, quando muore, lascia tante tracce della sua presenza: l”io” non è uno solo ma tanti quanti sono i ricordi e le tracce lasciate da Albertine. Ma Ella non tornerà più, è morta (Proust, La fuggitiva in À la recherce du temps perdu).
Noi non facciamo che muoverci in tale costellazione di “io”: una cartolina d’auguri di un conoscente scomparso, un suo omaggio ritrovato per caso... i ricordi evocati dalle cose che, in sé non ci direbbero proprio nulla, se non fosse per il loro valore affettivo, evocativo della ns. galassia del sentire.
E l’uomo è anche affettività ed è proprio tale che si ribella al mutare continuo come un mostro insaziabile, quella Sfinge che Edipo ha trovato – mutatis mutandis – sulla sua strada per Tebe e le ha voluto rispondere, rispondere agli enigmi postigli, invece di mutare strada, non subendo in tal modo l’atroce destino. È verissimo che Sofocle rapì i suoi conterranei grazie alla sua arte ma, in tale, si racchiudeva il destino, o sentito tale, dell’uomo.
Quell’esplorazione nelle zone arcane del nostro “essere” e come prevenire, anticipare, ciò che si chiama “destino” tramite il dominio razionale: non più sophia ma philo-sophia eppoi tutti i rivoli della scienza con specifici domini. E dalla scienza nasce la tecnica (téchne) come momento di verifica: una tecnica ultra-sofisticata che diventa esasperazione, tecnicismo, il quale tende a creare falsi bisogni, tende a formare caste detentrici di potere e tecnocrazia di stampo ieratico, “al di là del bene e del male”, le quali dettano – ai gruppi sottomessi – direttive estranee alle loro fattive esigenze.
Il tecnicismo come droga da somministrare ai più, alienandoli dai loro bisogni reali, affettivi, veri. L’idolatria, oggi, non è venerare fanaticamente le immagini sacre in senso tradizionale, bensì “adorare” i paradigmi che – man mano – ci vengono presentati tramite le false immagini di un nuovo paradiso fatto e confezionato in uno studio pubblicitario.
L’uomo che ha successo, bello attorniato da silfidi, che vive “oggi” in una grande città e “domani” in un villaggio esotico come riposo del guerriero. È un uomo “internazionale”: parla inglese prima della propria lingua materna, conosce le strategie di mercato, non ha neppure qualche “momento d’indecisione”, ovvero quale vestito o profumo scegliere (sic! ). Nella vita quotidiana tale mitologia si riflette in modo pericoloso: esiste il miracolo fatto, operato non da una équipe (ovvero frutto di operazioni e di esperimenti coinvolgenti l’apporto di ciascuno), ma da quella singola persona. Un’azienda in fallimento non viene salvata (come in realtà succede) da tanti fattori, ma dal manager X; una vita salvata non come risultato di lunghe ricerche ma dal dottor Y
È il ritorno del taumaturgo (sia questi economista o medico), di nuovi dèi, di persone con poteri “divini” Nell’immaginario collettivo tali persone non hanno più nulla di umano, sono oltre l’uomo.
Noi sorridiamo nel vedere il ragionier Fantozzi impaurito e in stato confusionale davanti al mega-direttore galattico ma, in modo meno paradossale, il nostro comportamento e il nostro atteggiamento sono portati alla venerazione fino a passare al più infame dispregio. Proprio perché il tecnicismo crea personaggi, divi, non uomini, che si muovono tra tentativi, che comportano vittorie ma anche errori. L’uomo di scienza e di cultura assume, in tale contesto, le connotazioni del leader politico della magica soluzione…
Lo specialismo, l’esasperazione tecnico-scientifica, hanno frantumato l’uomo e lo spezzetteranno ancor di più.
Già K. Jaspers parlava di una specie di riverente snobismo delle altre scienze rispetto alla filosofia. La comprensione a livello teorico di tale scienza sembra essere in secondo piano dai cosiddetti dati certi o comunque applicabili subito. Per fare un esempio più calzante, anche se grossolano, assistiamo all’uso della pillola per dimagrire alle porte dell’estate piuttosto che “lo smaltire” il grasso superfluo già durante l’inverno.
Ciò che interessa è il risultato; per quanto riguarda la pillola dimagrante e l’esercizio di prevenzione (che dura già dall’inverno), abbiamo impostazioni diverse, implicanti differenti metodologie e visioni della propria vita e salute le quali passano in subordine. Visto lo smercio dei prodotti dimagranti prima della villeggiatura, la riflessione globale sulla propria persona, come investire il tempo, quale vita condurre, sembra abbiano la peggio.
I “tempi” dell’uomo moderno s’adattano ai tempi costruiti, societari, del consumo, della tecnologia e tecnocrazia. L’importante è “essere al passo, tenersi sempre pronti”, ma chi ci perde è l’uomo, che è anche affettività, riflessione. Siamo costretti a vivere per il domani. E domani non saremo più ciò che siamo al momento, “domani” prelude all’ansia, perdiamo il senso della vita da gustare oggi. La memoria quindi cerca di recuperare, tramite il segno psichico, ciò che irrimediabilmente abbiamo perduto, non vivendo comunque il momento presente. I segni prendono il posto delle cose, degli individui. Proiettandoci sempre più avanti, perdiamo la caratteristica di noi stessi. Il momento: viviamo per un momento che attendiamo ma tale momento è un semplice nulla. Può anche non avverarsi e quel momento lo anticipiamo in modo ansioso, gli diamo tanti, troppi significati che, anche se si realizzasse, non sarà mai come lo abbiamo pensato, immaginato. Un domani, quindi, che come tale, è incerto, angoscioso, portatore di illusioni. Non per nulla Eliot scriveva che “Aprile è il mese più crudele”, ovvero ricadiamo da ipocriti nella coazione a ripetere la vita.
E di tale angoscia del domani, dell’attesa, che nientifica anche l’oggi, noi abbiamo questa testimonianza nell’episodio eliotiano del cane e del Karma. È un aut aut quello del poeta inglese (Th. S. Eliot, The Waste Land). Il divenire è inteso come angoscia, come profondo abisso, creazione del potere sull’uomo, dell’uomo sull’uomo e su tutto.
E Socrate, secondo Platone, va alla morte, al tribunale che lo giudicherà colpevole, disteso. Andrà a contemplare, prima di morire, discutendo con Teetèto (su ciò che è e non è conoscenza), le idee eterne, immutabili, contro il divenire. Ma noi non abbiamo neppure tale consolazione. Gli insaziabili enigmi di una disumana Sfinge li possiamo sconfiggere, uscendo dal programmato, facendo valere la nostra spontaneità genuina. Gustarci fin quando è possibile un raggio di sole in piena libertà, senza l’ansia di coloro che concepiscono tale semplice atto come un rito ansiogeno: dalle creme, dai costumi alla moda da indossare per essere “in”, per il consenso altrui, l’auto-programmazione, manifestare agli altri il banale. Non è moralismo, ma osservare come la spontaneità, essere se stessi è un mestiere che abbiamo disimparato.