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Nel dopoguerra, in piena crisi economica, le donne, laddove non lavoravano in proprio, riuscivano a trovare un’occupazione per lo più nell’ambito dei filati, nel laboratorio militare oppure come braccianti agricole. Una alternativa venne dalle prime aziende che commerciarono con le mandorle.
DON GIOVANNI LA GIOIA
Un’azienda che assunse un centinaio di donne per selezionare e sgusciare i suddetti frutti, era quella di Don Giovanni La Gioia, originario di Triggiano, ubicata presso la stazione di Fasano. Tra le operaie, Antonia Di Leo, ormai scomparsa, lavorava come “sacchiera”, anche di notte se era necessario, tanto che a volte si stendeva sulle masse di mandorle da cui poteva sbucare un topolino. Percependo 160 lire al giorno vi prestò servizio per dieci anni e senza contributi. Tuttavia per necessità e in mancanza di un lavoro alternativo non lasciò quell’impiego. Le mandorle venivano selezionate in base alla qualità: le Catusce semi tenere, le Tondine, cosi chiamate dalla loro forma che venivano da Carovigno e le Pizzute, dalla tipica forma allungata e appuntita. Ne venivano fatti pacchi da dodici chilogrammi o balle da mezzo quintale e spedite in Russia e in America.
L’AZIENDA DEI F.LLI PERRINI
Un maggior numero di donne trovò lavoro nell’azienda dei fratelli Perrini, Marzio e Florindo, già avviata dal padre Oronzo sin dai primi anni del dopoguerra. Di loro tanto è stato detto e scritto.
Alcune ex operaie ricordano che i Perrini si rifornivano in un primo momento dalle masserie circostanti. Il mandorlo e il carrubo erano piante molto diffuse nel nostro territorio poi, con la costruzione della rete stradale, molti esemplari furono abbattuti. Sopperirono con le importazioni da Turchia, Marocco Algeria e Tunisia.
Anna Sabatelli, ex operaia ivi assunta, nel menzionare gli anni trascorsi nell’azienda che era sorta in via Roma così si esprime Furono anni lavorativi vissuti in serenità, in un clima di rispetto reciproco e correttezza sia da parte dei nostri imprenditori che di noi operaie. Essendo state assunte, molte di noi ancora giovanissime, si può dire che siamo cresciute nell’azienda dei Fratelli Perrini. Ho sempre conservato verso di loro sentimenti di riconoscenza e gratitudine per le opportunità che mi furono offerte.
Aggiunge inoltre che il suo era un lavoro stagionale, da fine agosto a settembre, mesi in cui venivano raccolte, con paga il sabato, a fine settimana.
Anna, durante quegli anni, tra il 1972 e il 1980, conobbe il suo ragazzo Vito Carbonara, che poi sposò. Impiegato lì come factotum, Vito ricorda che Marzio arrivava con la bicicletta dove loro lavoravano e solo se qualcuno non aveva rigato del tutto diritto si innervosiva alzando un po’ la voce. Poi con la sua proverbiale saggezza tornava alla calma e con poche e avvedute battute riusciva a ripristinare il buon rapporto con i dipendenti. Marzio partecipò anche alle loro nozze portando con sé sia il figlio Oronzo, ancora adolescente, che il nipote Ernesto, figlio minore del fratello.
A tale proposito Anna rievoca il momento prima di congedarsi da loro per il viaggio di nozze. Con fare paterno Florindo Perrini li esortava a divertirsi senza tuttavia eccedere in spese superflue, ai fini del prossimo acquisto della casa.
Tutte e due i fratelli erano noti in paese per la morigeratezza nel tenore di vita, improntato alla semplicità e sobrietà, divisa tra casa, famiglia e lavoro. Il loro motto era “Il principale guadagno è lo sparagno”. Vito Carbonara ritiene che la triste vicenda del rapimento di Marzio portò ad un vero sconvolgimento nella vita di tutti, giungendo in un momento di particolare sviluppo dell’industria, laddove i due fratelli avevano progettato un ulteriore piano di incremento che avrebbe significato altri posti di lavoro, anche se all’epoca già vi lavoravano qualcosa come un centinaio di operaie. Negli anni settanta l’azienda fu tra le prime sul territorio nazionale per produttività.
Un’altra testimonianza mi è giunta dalla signora Veneranda Ostuni, nota a tutti come Nerina la cui zia già prima di lei aveva lavorato nell’azienda come caposquadra. Era una acerba quattordicenne Nerina, quando prese servizio presso le macchine che separavano il frutto dai gusci. Vi rimase solo per sette anni perché si trasferì a Milano, altrimenti sarebbe rimasta dai Perrini. Due elementi hanno accomunato ambedue le testimonianze: il lavoro alle mandorle fu generazionale per tutte e due i nuclei familiari di cui facevano parte e il tipo di rapporto avuto in particolare con Marzio Perrini. Per ogni tipo di problema o evenienza ci si recava in ufficio da lui. Con il fratello Florindo, dedito ad altri aspetti del commercio, il loro rapporto era più formale.
Come Nerina molte donne che lavorarono con le mandorle e carrube avevano solo completato il ciclo della scuola elementare. E qui è opportuno aprire una parentesi. Nel 1923 la Riforma Gentile aveva innalzato l’obbligo scolastico fino ai quattordici anni, ma nella stragrande maggioranza dei casi restò disattesa fino al ‘62/’63, quando fu varata la Riforma dell’unificazione della scuola media. Dagli anni settanta il suddetto obbligo, fino al conseguimento della licenza media, fu osservato tanto che il lavoro affidato ai minori di quattordici anni costituiva reato.
Dal 1984 la ditta dei due fratelli con la denominazione “Perrini Ceratonia” Srl., dal nome latino del carrubo, decise di sospendere la lavorazione delle mandorle concentrandosi sulle carrube.
Quando in primavera vado a fare lunghe camminate nei viottoli campagnoli, resto incantata sia dalla bellezza del mandorlo in fiore che dalla maestosità del carrubo. Poterne ammirare esemplari più vecchi di cinque secoli è poi, uno spettacolo suggestivo. Nelle giornate di particolare caldo un carrubo è una piccola oasi sotto le cui fronde il contadino trova sollievo. Complice in passato di diffusa povertà e privazioni, il frutto di quest’ultimo sostituiva il cioccolato nelle case meno abbienti.
Negli ultimi tempi ci si è accorti delle numerose qualità. Ricco di calcio e potassio, nonché di vitamina D, la polvere delle carrube viene utilizzata in alternativa al cioccolato. Oggi giorno trova impiego non solo come mangime per gli animali ma anche nella gastronomia, dato il suo elevato potere saziante. Alcune ditte locali producono i taralli di carruba, mentre il pastificio fasanese Cardone ha denominato un tipo di pasta Foglie di carrubo.
Che la nostra terra fosse ricca di mandorli e carrubi, già negli anni cinquanta, durante un viaggio, lo scrittore Guido Piovene lo notava specificandolo in un portentoso volume: Viaggio in Italia. Poteva mai sfuggire la cosa allo studioso Marzio? Certamente no, tanto che inserì la notizia sul retro del manifesto dell’azienda con l’immagine di un portentoso albero e dei suoi succulenti frutti.
Quest’albero importato dagli Arabi, carico di memorie bibliche ed evangeliche, ci parla sempre di altri tempi e costumi. Sembra infatti sicuro che le ghiande di cui si nutrì il figliol prodigo nella parabola, fossero frutti di carrubo… Cosi’ si esprimeva Piovene nel suo libro.
Ebbene, nella nostra terra questo prodigioso frutto, insieme al mandorlo, fu fonte di lavoro e sostentamento per molte famiglie determinando una prima trasformazione del ruolo della donna, non più relegata alla sola funzione procreatrice ma coprotagonista dello sviluppo economico e sociale.