Tra un niente e una menzogna

Il giro armonico di Nicola Romano

In questo libro la poesia di Nicola Romano è – mutuando un termine che appartiene alla musica – un crescendo che raggiunge, proprio sul finire, il suo apice.
Sì, perché lì, sul concludersi, si attua in modo definitivo e chiarissimo il senso più riposto dell’intera sua poetica; lì si trova ciò che fino a quel momento, forse, non si era interamente ultimato; lì erutta il vulcano dopo aver tenuto nella fornace del suo ventre la lava che ora esce – come una bomba di luce e di fiamme – e fertilizza, lungo la sua colata, ogni centimetro di terra che incontra.

Il riferimento al genere musicale è, quanto mai, appropriato in quanto l’armoniosità eufonica del dettato è fin dall’inizio evidente e costituisce l’elemento-chiave intorno al quale, e con il quale, l’autore dà vita alla creazione dei versi, dei loro significati e dei loro significanti. Incominciamo ad ascoltarne alcuni, allora, cosicché risulti subito tangibile quello che ho appena asserito circa la sonorità ed il suo farsi portavoce prima e traduttrice poi dell’anima e dei sommovimenti che la scuotono e l’inquietano, ma anche la rasserenano.
Da Un battito di ciglia (p. 22):
(…) Usciremo comunque/ dalla corsia di marcia/ un giorno o l’altro/ usciremo dai moti circolari/ e dai quaderni/ scritti controvoglia.// Ritroveremo poi/ un battito di ciglia/ nell’androne.

Nei primi due, dei versi qui riportati, la sbandata è evidentissima. Ed altrettanto lo è l’ineluttabilità che la stessa sarebbe in ogni caso avvenuta. Lo stralcio citato è paragonabile ad una sferzata: quella che si dà al cavallo per spronarlo a prendere il galoppo.
Ma non fermiamoci, andiamo avanti con l’ascolto dei singulti: “Sono la notte orfana di luna/ quando le nubi ipocrite/ spalmandosi sui tetti/ tappano i bei lucori al firmamento”, e ancora: “…Ha l’umido negli occhi la poesia/ come le arcate gelide dei ponti/…./ E resta come becco senza nido/ se poi la gente/ fugge le sue rime/ e le fa compagnia soltanto un cane”, ma nondimeno con quello dei respiri a pieni polmoni: “Mi tiene vivo/ la magnificenza unica del mare/ il tramestio pacato della rada/ quando quell’onda docile e cremosa/ s’allunga alla bonaccia/ come s’incurva un braccio/ sulle clementi spalle dell’amico” – “…vorrei capire il nesso/ se Parigi mi torna/ dentro gli occhi/ come un’amante/ sacra ed infinita/ a ricordarmi quando/ sur le sièges du bateau/ presi per mano te/ e la Senna intera”.

Mi sembra superfluo ribadire e riconfermare quanto siano musicali questi versi e tuttavia – repetita iuvant – lo faccio per la ferma convinzione, che ho, che tutto, in Romano, passa attraverso il vaglio e la convalida del canto. Ed è un placet, un lasciapassare di cui la poesia, la vera poesia non può fare a meno.
A favore di quest’ultima asserzione non posso non convocare per intero la lirica che segue:
Senza rumore (p. 32)
Impercettibilmente/ avanza un divenire/ è il creato che cresce/ senza fare rumore:/ germina un seme/ e rompe la sua scocca/ un bimbo sugge vita/ avvolto dal suo grembo/ un rivolo di roccia/ si promette a un ruscello/ il sole intiepidisce acini e drupe/ la linfa lentamente/ s’incorolla/ l’aorta irrora il covo dei pensieri/ e la tana scandisce/ i tocchi d’un letargo// e non sei solo.

Come si fa a non chiamare in causa questa poesia? È, la stessa, la prova che il linguaggio poetico può assurgere a vette elevatissime se solo si lascia trasportare lassù dai suoni che provengono direttamente dall’anima, se non ostacola in alcun modo il naturale fluire di quelle emozioni, di quelle sensazioni che hanno fatto sì che le stesse divenissero parola e fossero comunicate esclusivamente per ciò che sono. Già, perché non è detto, non sempre e non necessariamente, che la cosa debba avvenire nel comune conversare, nell’ordinario manifestare le proprie idee e persino i propri sentimenti.
Per rimanere al concetto espresso nel testo sopracitato: credete davvero che si potesse esprimere in modo più esauriente ed esaustivo il bisogno, l’incoercibile bisogno di non sentirsi soli di quanto, invece, non si evinca dalla lettura dei versi di Nicola?
È fondamentale – a questo punto – rifarsi all’incipit della presente interpretazione di Tra un niente e una menzogna. Dicevo, in apertura, che quest’ultima fatica del poeta siciliano rappresenta un crescendo, al pari di un’opera musicale che gradualmente aumenta d’intensità fino a toccare quei picchi dei quali ho pocanzi parlato.

E adesso è giunto il momento – dopo esserci con lui arrampicati – di sostare sulle cime per ascoltare le note finali del concerto che è stato eseguito. E iniziamo proprio dal testo in cui si parla esplicitamente di “giro armonico”. Da Deserti (p. 86): “Voglia di pace/ e di suadenti approdi/ di delizie nascoste/ in un viluppo umido di baci/ voglia di laghi lisci/ incastonati/… / …d’un giro armonico di sol/… // poiché ingiurioso volge/ un controcanto”; da Evanescenza (p. 91): “Perché assegnarmi/ un nome ed un cognome/ se sono sempre stato/ la sera che s’accuccia sulle gronde/ l’ombra del mezzodì sotto il gazebo/… / Perché tenere a mente un cifrario/ se come identità posso indicare/ quel fiotto fuoriuscito alla sorgente”.

Questa è musica in poesia, questa è l’eco del big bang che ancora risuona nella voce dei poeti autentici. Ed è, e sempre sarà profezia di speranza, come inequivocabilmente si deduce dai versi attualissimi di Nicola Romano con i quali mi piace concludere. Da Penitenza (p. 85): “Ma quando è stato detto/ che s’ammorbava l’aria// e che ora non è tempo// per cogliere ginestre alle scarpate/ per impettirsi al sole del mattino/ o guadagnare sorsi alle fontane?”.

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