Madre che resta

La rinascita di una madre nelle poesie di Patrizia Baglione

La nuova silloge poetica di Patrizia Baglione, Madre che resta (auto-pubblicazione, 2024), è uscita da poche settimane e, dopo un partecipato evento di presentazione sulla spiaggia di Torvaianica, ha già ottenuto ampio successo di critica tra svariate note di lettura, recensioni e commenti entusiasti e convin-centi apparsi in rete e rilanciati sui social.

L’autrice del Frusinate – è nata ad Arpino nel 1994 – consegna così al lettore una nuova pubblicazione, a distanza di due anni dal suo precedente lavoro, Nero crescente (RPlibri); in tale circostanza la Baglione non ha nessuna remore di mostrarsi per quel che è – mai e in nessun verso appaiono, pur reconditi, tentativi d’infingimento – come quando parla senza reticenze di quello equilibrio mentale / precario (5) in cui le tensioni intime, emotive e morali che reggono le sue parole, si ampliano a dismisura, senza distorsioni o facili iperboli.

In Madre che resta – stupendamente arricchito da un saggio introspettivo della poetessa toscana Francesca Del Moro, autrice di Ex madre (Arcipelago Itaca, 2022), posto quale postfazione – viene affrontato il dramma della perdita di un figlio o, meglio, della decisione – pure sofferta – dell’aborto. L’intera opera gira attorno a strofe per lo più asciutte, quando non lapidarie, atte a descrivere il tormento di una giovane donna dinanzi al sentimento spoliante di non potersi dire madre.
Leggendo i potenti versi della Nostra, testimoni puntuali di una fase difficile e travagliata della sua esistenza, l’Autrice ci accompagna nelle vene più profonde di un dolore intimo, di una sofferenza alla quale ci invita ad aderire, non solo con la lettura dei suoi versi ma con un atto partecipativo che è l’empatia e la vicinanza, sentimenti che fuoriescono, quali slanci solidali, con spontaneità e forza.
La poetessa, invischiata nei dilemmi della vita (e di scelte personali che non hanno da essere oggetto di commento né tanto meno di giudizio ma che, al contrario, necessitano comprensione e rispetto) perpetua un dialogo con il feto – nascituro non nato – con la progenie che rimembra nel corso del suo sviluppo morfologico (l’ecografia che attesta la tua presenza, 10), con quell’alterità che, a suo modo, è prolungamento di ella stessa. È un colloquio nel quale il lettore non farà difficoltà a individuare talora toni pacati e dolci, altre volte densamente critici e riluttanti dinanzi al corso degli eventi, più spesso a risaltare sono topos reiterati e ossessivi incentrati sulla sofferenza e la lontananza, sul senso di una mancanza lacerante e continua.

Il suo eloquio è volto a quel bambino – a quell’idea di bambino – che ha abitato per poco / il ventre materno (5), l’infante tanto cercato e con il quale ha condiviso un tratto del cammino sino all’amara concretizzazione che non ha avuto terra la mia costola (7).
Contrariamente a quanto si potrebbe pensare in un simile contesto, i versi non prendono la forma dell’interrogazione, pure retorica, dinanzi alla desolazione emotiva, né tanto meno si muove sul piano di un sentimento di colpa, giacché il dialogo, pur gravato da silenzi pesanti, è forza motrice di ragionamenti serrati e obliqui, che non pervengono mai all’enunciazione dell’appiattimento né alla dannazione: Dirti vorrei le cose difficili, / che l’uomo spesso è solo (34). Tutto questo non può che condurre a un rabdomantico percorso attorno ai luoghi del mistero, lì dove l’elucubrare, ai confini col senso del sacro (o, comunque, di una qualsiasi sfera metafisica) si rafforza: parlami del vuoto, / di questo passaggio verso il nulla, / dell’amore che supera le galassie (45).


La descrizione del reale e del quotidiano non può non essere vagliata da questa lente di irrisolta negatività, di ferita mai ricucita e pertanto l’analisi di tutto è realizzata per mezzo di forme di negazione vale a dire mediante quel che manca, si sente la mancanza, non si vede e non si può stringere diparte tutto quel mondo di immagini e proiezioni, riflessioni pure amare e sagge, tentativi di autocomprensione e di un’indagine continua nei recessi del proprio io. Possiedo giorni che non sono giorni, / […] / tane per nascondersi, / buchi da riempire (10).
Le parole della Nostra affondano nel dramma intimo, sprofondano nelle sacche di dolore più incistate nella carne, rincorrono un mondo di viscerale sofferenza e privazione dominato dalle notti insonni e dai pensieri tortuosi, dalle riflessioni amare, fanno riaffiorare quel magma potente che convive nelle interiora della poetessa, sempre allo specchio col suo dolore, che è contemporaneo e a lei attuale, ma che è un dolore atavico e sempiterno: quello di una donna che è madre, al di là del dato oggettivo. Pare di credere, infatti che è madre non solo chi ha partorito figli ma anche chi ha il sentimento di madre e la Baglione, che con quest’opera dialoga col figlio, con noi, con il mondo e con quell’universo che in qualche modo vedrà suo figlio inserirsi in esso, è donna di creazione. Da poetessa di innegabili capacità e di grande coraggio è colei che “dà forma” al verso e, tramite esso, eterna col verbo più sentito e magmatico quel dire al figlio il tormento che la veste nel presente.
Ed è per questo, e (tanto) altro ancora, che questo libro non è una commemorazione o un lamento, né un componimento in versi che adopera l’elegia luttuosa e nostalgica di uno “ieri” che non è stato, ma, al contrario, un canto alla vita che si rinnova nel pensiero fondante di un io – quel bambino senza età / niente pelle, nessuna traccia (16) – che, pur non avendo proiezione nel mondo del reale, è inciso come un tatuaggio sulla pelle, disperso in ogni refolo di vento che lambisce la Nostra: Il geranio mi cresce dentro (40), dice. È un racconto autentico di quel bianco dolore (24) che abbacina e rifulge. Oggi e domani.

Posted

04 Oct 2024

Critica letteraria


Lorenzo Spurio



Foto di Patrizia Baglione





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