Care Amiche e Amici...
cosa c’è dietro un’immagine dipinta? Oltre alla complessità tecnica, alle emozioni che incarna, vi è soprattutto un vissuto, tra materia e spirito, corpo e anima. Le immagini nascono da esperienze e conoscenze di storie di vita. Le figure che dipingo sono mentali, psicologiche, senza fisionomie precise, ma ritratti di esistenze immaginarie, percepite nel quotidiano. Figurazioni che sbocciano da un luogo interiore, fertilizzato dalle tante esperienze. Dalla società che ci brulica davanti in tante individualità omologate a maschere viventi, dai sorrisi spenti e dalla sofferenza d’amore di un io inesistente. La pennellata, il tratto che incide ritmi grafici della musicalità interiore, di un verso di poesia, di un pensiero sociologico, di un’essenza antropologica, sono la scrittura di uno spartito pittorico che nasce dalle profondità dell’animo. Insomma, un tracciato di segni che fioriscono nella trance agnostica dei ritmi coloristici, diventando un narratore di storie attraverso il danzare delle pennellate che si fanno sempre più sofferte, urlanti e piangenti. Incise in sintesi, scarne, essenziali, senza edulcorazioni.
Premessa per raccontarvi una storia, quella che sottende la figura di uno spazio pittorico che realizzai anni fa, facente parte di un insieme di immagini in seguito ad una serie di acrilici dedicati alle maschere umane della società odierna. Una serie che ebbe battesimo in Lussemburgo nel 2001, capitale della cultura europea nell’ambito delle manifestazioni artistiche, dal titolo: Siliconismo. Fui onorato all’inaugurazione dalla presenza della commissaria europea Viviane Reding, con presentazione scritta della poetessa Maria Luisa Spaziani.
Il quadro in presentazione fu uno dei tanti che fu ispirato dal racconto che leggerete, reca il titolo: L’esistenzialista, della serie Gente d’oggi del periodo siliconista.
IL RACCONTO
Lei era stata da piccola colmata di ogni cosa, per cui crescendo aveva scelto di vivere ogni attimo con assoluta libertà. Come una farfalla. Sempre lodata, ammirata, ogni desiderio concesso. Nulla negato. Con gli anni divenne sempre più impellente che ogni desiderio le fosse appagato, compiuto, colto come un chicco d’uva gustandone il nettare, ubriacandosi, bevendo e fumando di tutto. La sua linfa: il piacere, costante, ogni momento. Tutto il resto zero, non contava. Inebriarsi di sensazioni, di zuccheri alchemici la sua poesia vitaminica, esistenziale. Alimento cui non poté farne a meno incrementatosi sempre a dismisura. Furono i suoi valori, il suo stile di vita.
Ma, nel tempo cominciò ad avvertire un filo di amarezza che divenne sempre più assiduo. Qualcosa le mancava, lo avvertiva dalle emozioni sempre più assenti. Il vuoto si impossessò di lei. Tutto, ogni paesaggio la lasciava indifferente. Il distacco dalle cose la risucchiava sempre più nella solitudine. Si sentiva arida, piatta, inutile. Reagiva affondando con ostinazione in ogni ricerca di piacere, persino virtuale, con la speranza che pacificasse i suoi tormenti. Ma era illusione, ogni cosa si rivelava momentanea. Inutile. Restava una masturbazione cerebrale e fisica. Affondava disperatamente le mani nel suo barile a raccogliere le ultime gocce di speranza. E nonostante la sua carne infrollasse, il sogno della vita seguitava ad essere vissuto come un piatto di pietanze immaginifiche, ambite, desiderate, colorate. Bulimia del piacere totale. Vero elisir esistenziale.
Ma il tempo la rendeva sempre più involucro che anima. Non era più in grado di concepire uno stile di vita diverso. Sensazioni e suoni sempre più urlanti, disperati le parlavano dentro, assordanti, inascoltati.
La bulimia del possesso stravolgeva ogni immagine, della realtà e della fantasia. Macinava di tutto, non solo uomini e donne, dipendente o collega. Ogni sensazione un limone da spremere: e ne spremette tanti. Di cose e di anime. E di limoni la sua vita fu piena. Agri, agrodolci, più agri e più dolci, e amari, da piantagione e da giardino. E poi come ogni buccia, tutto finiva nel cestino. E nel cestino finì la sua coscienza, la sua anima.
Nonostante ogni espediente si sentiva sempre più sola. Soprattutto un mondezzaio, un rifiuto di giornata, un vuoto a perdere, percezione che si impossessò di lei. Cominciò a detestare gioielli e ornamenti vari. Lo spettro della morte prese a tormentarla, aleggiando in lei, sempre più incalzante, giorno per giorno. Un sibilo amaro partiva sempre più costante dalle sue viscere come una corda che dall’anima le giungeva nella testa. Una corda musicale che suonava sempre la stessa melodia, la stessa litania, come un’onoranza funebre. Cercava di attutirla, abissarla, edulcorarla, inutilmente. Lo spettro della morte la ingombrava, vigilava, eterea, impalpabile ma presente. Angosciante. Il viso sempre più duro, violaceo, decadente, emaciato, senza luce, senza anima. Ibrida e insulsa e piena di vuoti. Era acculturata, forse, anche se leggeva con avidità, ma non trovava mai risposte. Più si costruiva più si distruggeva. Sempre pronta a cogliere qualcosa le potesse sfuggire. Ma la morte era sempre lì... sempre più vicina, tremendamente vicina.
Nel maggio del 2001 sull’Agenda Expo della Galerie Municipale in Lussemburgo, “Centre Noppeney d’Obercorn”, fu riportato:
Nestore Del Boccio, l’homme qui aime le masques, les yeux diaboliques et riants. Sa peinture est un cri de douleur contre un monde qui se dépersonnalise. ‘Nous devenons tous des masques’ affirme-t-il. ‘Dans nos voitures chères, dans nos petites conventions, le clonage, la chirurgie estétique, sommes-nous encore humains?
Testimonianza di un impegno che porto avanti da tantissimi anni.