La parola è l’inno del poeta.
È la mia seconda volta nella poesia di Rosa Pugliese ed è sempre una scoperta. Da La strategia della formica a La tana del riccio, due metafore utilizzate da Rosa per svelare che l’uomo è un animale sociale e non si salva da solo. Per chiarircelo prende a esempio il mondo animale e le loro tattiche di sopravvivenza; dal loro comportamento trae un messaggio da dare all'umanità: per poter vivere insieme, bisogna applicare la giusta regola che permette ai ricci (porcospini) di scaldarsi nella tana senza ferirsi e alla formica brasiliana di formare un cordone con le altre per sopravvivere. La società è salvezza e dannazione per l’uomo e lei trova nella poesia la «calda dimora»; per sopravvivere.
Scriveva Pablo Neruda La poesia è un atto di pace/ Di pace è fatto il poeta come di farina il pane e la poesia per Rosa Pugliese è un atto di pace, poiché prende tutto il dolore del mondo e lo placa proprio come il fiume che s’infratta tra dirupi e forre per sfociare lento e placido nel mare. La Nostra trae dalla sofferenza energia creativa e la elabora in un canto liberatorio, nella poesia trova la possibilità di sorpassare il presente, se esso è arido e senza una certezza, di superare lo stretto orizzonte provinciale per cantare il dolore della gente costretta a emigrare. Dei barconi che attraccano alle nostre coste canta il dolore della loro emigrazione con gli occhi rivolti all’ emigrazione intellettuale di questi anni e di quella della metà del secolo scorso dei nostri contadini. Canta la fatica del diverso e su tutto questo dolore si apre in versi, che spaziano tra i colori della terra lucana le montagne, i fiumi i boschi e tra le tenebre e la luce. La poesia diventa così voce dell’anima e noi siamo tratturi di campagna/ solcati dalla terra che (ci) li ha generati, o fiori di malva, germinati nella terra, crepata dal gelo, e noi siamo un tornare a casa/ roccia nella roccia/ attraversati dalla vita/ (Noi siamo questo).
Rosa ruba le immagini da ciò che più ama; dagli affetti, dal paesaggio, dalle montagne, dai fiumi, dalla terra, dai fiori, dagli alberi, dalle rocce, dalle strade. La sua poesia si accosta certamente al realismo tipico di Pascoli, pur tuttavia separandosene nel suo perpetuo scavarsi dentro, che estrapola le essenze della propria intimità, cercando disperatamente un valore divino, quasi mistico. Rosa ritorna, al pari di Pascoli, a cantare la quotidianità delle “piccole cose”; ritorna a quella felicità domestica, che ognuno di noi porta gelosamente nel fondo dell’anima e appare la figura della madre che la conduce alla scoperta del mondo o del padre che la portava per mano nella vigna, dove siamo l’ulivo era rifugio/ e la frasca ombrosa/ (le)mi era amica.
Il poeta è colui che più degli altri porta nell’anima la propria terra. Si parla di poeta come del cantore di una geografia umana. Egli erige plastici, mappature, carte del proprio luogo per affermare l’appartenenza, creando una sorta di “paesologia” come afferma Franco Arminio, che è una sorta di etnologia del paesaggio di cui il poeta diventa espressione, a voler significare che noi siamo paese ed è da qui che nasce la scrittura di Rosa Pugliese. “La paesologia è una forma d’attenzione. È uno sguardo lento, dilatato”, scrive Arminio. Senza la memoria finiremo nella polvere. Il bello è che la paesologia non studia un paese, l’annusa, l’ascolta proprio come fa Rosa che rende il profumo degli ulivi smossi dal maestrale, l’energia della case arroccate sulle montagne, la forza dei contadini dai volti bruni spauriti, strappati a un destino di fame; ma ci riconsegna anche la loro malinconia e la loro struggente nostalgia nello scrutare l’orizzonte di un ritorno. Ci dona le immagini dei ciottoli distesi/ all’ultimo sole siamo ; il suono dei rintocchi delle chiese, dei latrare dei cani; c’immette nei vicoli, dove s’intravede il cielo fra i balconi intrecciati alla vite selvatica, che ci riconduce a Montale, a quel cortile dove si intravede l’azzurro del cielo (I limoni: ci riporta il tempo/ nelle città rumorose dove l’azzurro si mostra/ soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase).
La sua poesia è rivelazione quasi “maieutica”, in cui l’animo esplora nel “fondo profondo” o nel “porto sepolto” di Ungaretti una memoria, per trovare una scintilla di verità, un frammento connesso a una istantanea illuminazione, per scoprire ciò che è nascosto e svelarlo agli altri. Il poeta diventa così vates, che ricerca il mistero profondo della vita. Nella nostra società individualistica e “liquida”, (come afferma il filosofo polacco Zygmunt Bauman), di fronte al sentimento angoscioso di precarietà, la poesia ha una missione: scoprire il divino nelle cose e riportare nell’uomo il senso morale, smarrito dallo smantellamento delle certezze e dalla morte degli ideali. La sua anima piange questo niente/ traslato nei vivi. Le parole del poeta saranno magia che ci solleva/ dal carico dei giorni/ appesantiti di tristezza o il suo lavoro sarà inutile come quella della Sibilla (Virgilio nell’Eneide), che ispirata da Apollo trascriveva le profezie sulle foglie, che il vento disperdeva? Il poeta è un intermediario, come rivela il mito, spesso inascoltato, tra il mondo della verità e quello degli uomini, ma ha il potere di modellare senza rompere i sogni, perché fatti fummo per superare il limite […] assetati di terra e di spazzi interminati (Passaggi di libertà).
I versi limpidissimi e rigorosi aprono al lettore una nuova percezione dell’uomo, che sente l’altro non più nemico ma fratello. Egli dona il cuore per amare, gli occhi per vedere, gli sguardi sereni, un pugno di pace. Il poeta “è colui che porta in tasca l’universo”, come scrive la mia amica poeta Anna Santoliquido (una delle voci più pregnante di questo secolo). Ed è la speranza che non l’abbandona, impegnata in una continua analisi e ricerca interiore. Sa che oltre le esperienze e le prove della vita, in fondo c’è sempre un raggio di luce, che illumina e dà forza. La ricetta è vivere senza respingere, senza rimpianti.
Trasportare idee come fossero bagagli/ Incerti nel viaggio/ Sicuri nel passo (La pastura).