Due chiacchiere con Michele Libutti su il temporale
Il mondo è quel che è: la maturità, parlo anche di quella letteraria, consiste nel fare esperienza di un semplice fatto e cioè che il mondo, per dirla anzitutto con Italo Svevo, non è né bello e né brutto ma è originale. Maturità è accettazione di questa verità profonda e tentativo di metterla addirittura per iscritto: un po' come quando si dipinge un quadro realista, con tutta la bellezza della pennellata fedele, una pennellata di genere dal colore intenso e profondo.
Andando a scomodare qualche archetipo della media aetas letteraria, possiamo certamente affermare che mentre Dante si strugge nell’arco di un’intera Commedia per tentare di moralizzare l’universo, mentre Petrarca è preda di un dissidio interiore a metà tra il rifiuto e l’idealizzazione (una visione che aiuta solamente a realizzare un pallido abbozzo del colore del mondo umano) Boccaccio è invece l’uomo del mondo come è, l’uomo cioè che accetta la realtà, e che anzi la esplora con la libertà del suo capolavoro, il Decameron. Per Boccaccio non c’è una «ragione ultima delle cose», o se c’è, non tocca a lui raccontarla. E non c’è nessuna verità particolare nell’ordine delle cose. Saper narrare, dopo quello che è stato il terremoto letterario avvenuto con il Decameron, non significa più saper imbastire storie fantastiche o belle storielle morali, non significa più saper scrivere bene la propria autobiografia, ma significa, di fatto, mantenere quella capacità nuova e moderna di saper raccontare realisticamente e con quel tanto che basta per essere degni di quella che è la famosa affabulazione autoriale.
Ma cosa c’entra un discorso del genere con la ventiduesima uscita letteraria del dottor Michele Libutti per la Photo Travel Edition di Rionero in Vulture (Potenza)?
Non altro che questo: credo che Michele Libutti, ne Il Temporale, richiami ancora una volta, proprio quella lontana ma importantissima rivoluzione letteraria di genere avvenuta nel Decameron, facendolo, se non con intenti espliciti, almeno per piacevole suggestione inconscia. Del resto, le probabilità di successo di questo parallelismo sono molte, esercitando il libro italico dei racconti per eccellenza un modello indiscutibile ma il più delle volte credo inconsapevole per molti scrittori italiani ed europei anche contemporanei.
Certo, con questo paragone autoriale di tipo autorevole non ho scoperto un granché: ma se c’è una cosa che mi ha profondamente colpito in questo lavoro letterario del dott. Libutti, questa cosa risiede in due immediati parametri “classici” che ritroviamo a mio parere - guarda caso – appunto nel Decameron: la ‘scrittura dell’io’ nascosto tra le pieghe delle scene, come voce tra le tante ma pure ampiamente presente e quella varietas umana che costituisce il primo meraviglioso repertorio di storie meravigliosamente raccontate. Il Temporale è tutto questo: un autore discreto ma presentissimo alle prese con una macchina teatrale di grande varietà umana che non smette di affascinare e catturare il lettore attraverso i meccanismi di una mai scontata o inutile fabula.
Ora naturalmente, lasciando da parte tutti gli altri essenziali parametri delle novelle boccaccesche ( non sono qui a trarre uno studio di genere né a operare forzature tra due estremi alla fine forse del tutto fuori luogo ) e mi riferisco primo fra tutti i parametri essenziali proprio alla celeberrima struttura ascensionale del . Decameron. , o, se si preferisce, alla struttura di un percorso che conduce dal male al bene, dal disordine all’ordine, dallo smarrimento alla riconquista della saldezza morale, oppure – altro pilastro – il parametro dell’epidemia di peste narrata nell’introduzione alla prima giornata che poi è la ragione per la quale i dieci giovani della brigata si ritirano in campagna quasi a tentare di rifondare il mondo attraverso il potere della parola e del significato, ecco che appare abbastanza chiaro, guardando a questo lavoro di Michele Libutti, come forse il Decameron sia rimasto inconsciamente un sicuro ed intramontabile modello, oltre che una garanzia, una sicurezza, per lo sviluppo e la cura della parola artistica dell’autore de Il Temporale, una garanzia che assicura, saldezza, bellezza e verità a queste 120 pagine veramente piacevoli e ben curate.
Dunque, pare che anche stavolta la penna di Michele Libutti presenti semplicità di indiscutibili altezze, grande intrattenimento e riflessione insieme; e questo senza la pretesa di cadere nella trappola o nella tentazione, oltremodo andata eppure sempre presente, di allestire e sciorinare una vetrina di massimi sistemi. Voce tra le voci, la letteratura lascia sempre un segno nel mondo: un’epigrafe flebile e marmorea ad un tempo, un colore neutro ma caratterizzante.
Vincitrice di numerosi premi, tra cui due menzioni a Roma in Campidoglio per UNLA accanto a pietre miliari come Dario Fo, e una nell’Agenda dei Poeti a Milano, in questo caso la penna di Michele Libutti, medico chirurgo e scrittore rionerese, passando anche dal taglio giornalistico importante e costante per La Nuova e il Quotidiano di Basilicata, è destinata a lasciare il suo sicuro segno nella comunità nord lucana e più in generale nel nostro sud, non fosse altro per la non comune attitudine di avere sempre intrecciato lo stetoscopio con la macchina da scrivere, l’auscultazione del cuore con l’ascolto delle pieghe dell’animo umano. Direi senza dubbio una gran bella cosa.
Da un’intensa e recente chiacchierata davanti ad un caffè e dopo la lettura in anteprima di questa nuova uscita letteraria, ho potuto conoscere la grande sensibilità e i modi semplici e gentili di questo innamorato della lettura e della conversazione: ed è stato così che Michele Libutti mi ha reso partecipe di interessanti stralci della sua visione sia umana che letteraria del mondo che mi piacerebbe condividere con voi. Uno scrittore che anche come persona ha molto da dire e da condividere con chi vuole ascoltare merita sempre un buon approfondimento e questa serie di domande inanellate a seguire spero lo testimonino: immaginatele pure roteanti attorno ai fumi di un thè caldo in un rigido pomeriggio d’inverno nella realtà di un paese quasi in mezzo al niente … spero possiate trovarne attaccata la speranza del bello della cultura, un ragionare sempre unico, vivido e accattivante, intorno alle pur flebili volute della vita.
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Dottor Libutti, la sua è stata per gran parte una vita divisa, se così si può dire, tra due grandi amori: scienza e letteratura. In quale maniera hanno convissuto così armonicamente queste due colorazioni del suo vivere e del suo agire?
È facilmente intuibile che due mondi “apparentemente” distinti e distanti possano vivere sotto lo stesso tetto, ma solo a una condizione e cioè che chi li “ospita” abbia un amore incommensurabile per entrambi. D’altronde, tutto quello che accade agli esseri umani durante la loro vita appartiene due mondi citati: gli uomini scrivono e leggono sugli argomenti più vari, sulle questioni più controverse e, prima o poi, si troveranno a fronteggiare qualche malattia, come medici o come pazienti; ugualmente esiste una interrelazione di vario tipo, a partire da quella emozionale, tra questi ultimi proprio come esiste un collegamento tra medici e pazienti e quindi tra malattia e letteratura in generale.
Considerato questo speciale “menage a trois”, il resto viene da solo: la letteratura, è automaticamente inserita nel rapporto medico-paziente almeno così come l’ho vissuto io: perciò era più facile fare il medico avendo a disposizione un bagaglio letterario da utilizzare. Solo per fare un esempio mi viene in mente un rapporto speciale che ebbi con un giovane ginnasiale che si rifiutava categoricamente di parlare con me (perché aveva una sorta di timore forse) e che cambiò totalmente atteggiamento dopo che facemmo insieme una versione di greco; il libro era aperto sul tavolo e io mi mostrai curioso di quello che si presentava ai miei occhi e cominciai a leggere per conto mio; lui si avvicinò e senza accorgersene finalmente sorrise. E che dire, poi, del paziente che si augurava di ammalarsi per avere più tempo a disposizione per le sue letture preferite? Da questi due esempi raccolti sul campo si può evincere l’inscindibilità tra discipline che, in fondo, hanno per oggetto l’uomo con i suoi problemi organici e spirituali. Tanti medici in varie epoche erano soliti aggiungere alle prescrizioni usuali qualche buona lettura.
Parlando della sua ultima uscita letteraria, Il Temporale, ancora una volta ha scelto di usare la formula del racconto plurimo e corale: cosa in particolare la lega alla bellezza, alla leggerezza e alla malleabilità (almeno teorica) di questo genere così uguale, eppure così tanto diverso dal romanzo?
Intanto devo subito precisare che per me è fondamentale il rapporto con il lettore che considero sempre come il giudice assoluto di tutto quello che scrivo e colui che in un certo senso ha il diritto di manifestare le sue preferenze. Nei paesi piccoli come il mio capita spesso di essere “intervistato” per strada da gente comune e di commentare qualche libro soprattutto se appena edito. I miei venticinque lettori (meno male che non sono tanti!) preferiscono le raccolte di racconti soprattutto brevi, benchè i pochi premi letterari da me vinti siano dovuti tutti ai romanzi. All’inizio di questa mia seconda attività i miei primi due libri in senso cronologico descrivevano dei racconti brevi, alcune volte brevissimi, sempre benaccetti perchè il lettore riusciva a leggerli più speditamente senza dedicare alla lettura un tempo costante e continuo per ricordare tutto, a differenza del romanzo che, appunto, richiede una maggiore concentrazione. Inoltre, il racconto breve presenta maggiore praticità oltre alla curiosità soddisfatta prontamente grazie alla sua brevitas e ad una trama più contenuta. Sto pensando di scrivere un racconto finale che sinteticamente metta a contatto tutti i personaggi dei vari racconti in una sorta di terapia collettiva, dove tutti seduti intorno a un tavolo cercano una trama (e forse un rimedio) comune; questo sarebbe una via intermedia tra racconto breve e romanzo.
Il Temporale è uno scrigno di grande profonda humanitas e di necessari contrappesi ironici alla profonda analisi di base che ne scaturisce. Perché l’ironia e il saggio distacco dal giudizio esplicito sull’esistenza umana rappresentano per lei un metro di conoscenza e di alleggerimento dei pesi naturali del nostro vivere?
Non si può sempre dire la verità. Perché non è necessario sempre dirla, la vera verità, fermo restando, per tornare a qualche secolo indietro, la solita domanda: “Che cos’è la verità?” Forse sarebbe meglio cercare di affrontare la realtà lanciando solo dei messaggi che poi, sempre il lettore interessato, potrebbe interpretare come crede. Ampia libertà per tutti, ovviamente! E’ più facile scegliere un compromesso: dire la verità … a metà e sorridendo, il che poi, in pratica, è quello che afferma la mia intervistatrice; distacco dal giudizio sull’esistenza umana e alleggerimento dei pesi del vivere! Per mettere in atto questa “strategia” io mi servo dell’ironia e credo che questa sia stata una buona scelta. L’ironia, se fatta con un certo criterio qualche volta fa ridere; anche se, implorando il perdono di chi mi legge, qualche volta sfiorerebbe il sarcasmo.
Andiamo più nello specifico, parlando dell’uso che lei attua attraverso il grande parametro dell’ironia letteraria, un mezzo preziosissimo che fa dello scrittore non solo un arbitro super partes della realtà, ma anche un relatore maturo degli aspetti del nostro vivere così prudentemente lontano dal giudizio morale, eppure ampliamente coinvolto in quella che è la denuncia delle oggettive pecche e mancanze del genere umano: credo personalmente che l’ironia abbia in tal senso sempre, come altra faccia della medaglia, un desiderio di riflessione profondissima e mai banale, figlia di una certa malinconia costante, elegante e sottile. In queste pagine lei si è mostrato davvero come fine ironizzatore, un osservatore dietro le quinte, eppure, presentissimo e in preda ad un esercizio di analisi mai scontato. Mi accorgo in fin dei conti che la sua è la penna di uno scrittore che ha forse saputo superare certe asprezze del vivere facendo leva su quelle che sono le vere forze, anche creative, su cui sapere e potere contare nella vita…
E sì! Come si fa, nella letteratura come nella vita, in generale, a vivere senza contare sulle proprie forze? Per me l’ironia è una questione, anzitutto genetica, che mi è stata trasmessa da mio padre che si serviva dell’ironia nei momenti più inimmaginabili. La sua era, come la mia, un’ironia spesso triste. Mio padre somigliava fisicamente ad Eduardo De Filippo nelle parole e nei gesti, anche se probabilmente non credo che lo conoscesse bene … ma molte volte sembrava imitarlo, perché pronunciava praticamente le stesse espressioni. Ma anche parecchi miei pazienti durante i nostri colloqui si servivano credo involontariamente dell’ironia, alcune volte amara. Non è facile ridere quando si incontra giornalmente il dolore, sia per me medico che per i pazienti affetti da questa o quella patologia. Mi piace ancora citare un’espressione dell’intervistatrice (che ha indagato molto bene su di me) quando parla di desiderio di riflessione, di malinconia e mi qualifica come “osservatore dietro le quinte ma presentissimo e in preda ad un esercizio di analisi mai scontato”. Anche se spesso amara, considero l’ironia come il sale della vita! Peccato che alcuni la considerino equivalente alla comicità!
Ne “Il temporale”, siamo di fronte a momenti di autentica cronaca personale controbilanciata dalla gustosa pittura poetica delle realtà di una comunità del nostro Sud. Da lucano e da scrittore, qual è il suo rapporto con la vita e la mentalità lucana?Alcune volte riesco a inserirmi nel comune modo di pensare di noi lucani, ma devo pur dire che vivere nella nostra realtà non è facile. Siamo pur sempre nel profondo Sud dove spessissimo, quasi sempre, bisogna sopportare i pettegolezzi della gente, il comportamento non sempre benevolo di una popolazione che vive ancora di preconcetti. Bisogna però considerare anche il fatto che siamo stati governati per decenni non certamente nel migliore dei modi; il clientelismo è sempre imperante, indipendentemente dai risultati elettorali dai quali tutti ci aspettiamo una sorta di panacea per finire poi col restare quasi sempre automaticamente delusi; siamo ancora soggetti alla logica dei “compari”, poche persone detengono il potere, non solo politico, ma anche culturale, economico e, in breve, sociale. La nostra non è una società meritocratica e solo chi “sgomita” riesce a farsi strada come pure avrebbe diritto ma in un modo più naturale e consono alla libertà individuale che spesso viene negata con varie forme di prepotenze. Di fronte a questo mondo è inevitabile una certa apatia collettiva che blocca tante iniziative. Mi sia concesso, a questo punto, di essere più concreto, rispettando chi magari non lo meriterebbe neppure. Qualche anno fa mi venne la bella idea di partecipare a un concorso letterario nella nostra regione. Quando mi presentai coi libri mi dissero che avevo fatto inutilmente tanta strada se era vero che non conoscessi qualche membro della commissione…A buoni intenditori… I pochi premi letterari li ho vinti a Roma (due), a Milano, ad Arona dove, per quella che è stata la mia esperienza, non c’era bisogno di conoscere …” qualcuno!”
Dopo ventidue uscite letterarie può dirci cos’è in definitiva per lei raccontare?
Raccontare è dare libero sfogo a tutte le mie voci di dentro: è esternare le mie preoccupazioni e i miei dubbi sempre con una certa genuinità, soprattutto quando inevitabilmente si finisce per raccontare qualcosa che potrebbe infastidire qualcuno; raccontare è anche un modo per dare speranza soprattutto ai giovani e a tutti quelli che si occupano di cultura disinteressatamente! Spesso vedo una grossa competitività nelle varie attività culturali che proprio non riesco a spiegarmi; raccontare è l’augurio che tutti possiamo incontrare sul nostro cammino una persona che ci offra un ombrello abbastanza grande da poterci riparare anche abbracciandoci stretti stretti, proprio come è successo nel primo racconto dell’ultimo libro, sotto un temporale; ma perché questo accada ci vorrebbero tante persone con un ombrello simile. E inoltre, carissimi lettori, sarebbe necessario…leggere questo libro. Anche se -mi chiedo- una decina di lettori in più, sommati ai venticinque di partenza e a qualche uomo della pioggia in più, riuscirebbero a cambiare qualcosa per rendere più vivibile e umana non solo la nostra amata terra ma tutto l’orbe?
A questa domanda mi permetto di risponderle io, caro dott. Libutti, ma solo con una suggestione: per fortuna gli ombrelli, pezzi di stoffa cuciti con fili di parole, esistono ancora. Anche se chiusi, il più delle volte inservibili, è comunque bello sapere che esistono, pronti all’uso. A Boccaccio sarebbero piaciuti molto. Così come i temporali.