C’è un velo di nostalgia che intrama le pagine di questo romanzo, è la nostalgia di un mondo in cui i valori della famiglia, ci si riferisce alla famiglia tradizionale, sono insidiati e perfino, oscurati da nuove forme e modi di rappresentarsi, modi e forme nuove sui quali personalmente mi pare opportuno sospendere ogni non meditato giudizio.
C’è anche una nostalgia che in alcuni passaggi, diventa struggente rimpianto per quelle certezze che animavano e guidavano, fino ad ieri la nostra vita. Certezze che oggi sembrano essere travolte da un relativismo egocentrico che non si fa scrupolo di buttare a mare anche ciò che di buono c’è ancora.
C’è ancora una nostalgia dei luoghi, si direbbero i luoghi del cuore, in questo caso Montemaggiore Belsito, così come noi di una certa età li abbiamo conosciuti e vissuti.
Luoghi che erano comunità vive, centri di un’aggregazione sociale legata dal filo rosso della solidarietà: condivisione di gioie e dolori.
Luoghi oggi, purtroppo, in gran parte desertificati perché non offrono futuro alla gente.
C’è nostalgia per l’onestà, la sincerità, l’amore, quello vero che spinge, se non all’eroismo, almeno al sacrificio,
all’impegno. Ansia d’amore troppo spesso non appagata o mal compensata con surrogati materiali il più delle volte effimeri superficiali frutti avvelenati di una società per lo più malata.
C’è, in poche parole, nostalgia per quelli che una volta chiamavamo buoni sentimenti e che oggi, non dico a proclamarli, ma a solo rimpiangerli si rischia di divenire oggetto di degnazione se non addirittura di sguardi malevoli.
C’è tanta nostalgia, dunque, per un mondo di cui percepiamo il rapido declino, se non l’infrenabile scomparsa, sotto la spinta inarrestabile di una malintesa modernità.
C’è poi un velo di tristezza che soffoca perfino i pochi momenti di gioia che Marco, il protagonista, tutto sommato un vinto, un vinto tormentato da un destino inesorabile, riesce faticosamente a conquistare.
Un vinto perseguitato dalla malasorte. Non è un caso infatti che la madre che gli ha dato asilo e sostegno economico all’improvviso muoia; che finisca per perdere il lavoro, che gli dava sicurezza e che sia costretto alla disperata ricerca di un mezzo di un qualche mezzo di sostentamento.
Ma soprattutto la sorte che si accanisce contro di lui gli strappa, a seguito di un grave incidente stradale quella figlia, Michela, che con scelta coraggiosa e altrettanto generosa, aveva deciso di stargli vicino, e tutto questo quando aveva trovato il compagno ideale.
Un destino nero che, come un calice amaro, accetta senza imprecare o denunciare quello che un grande laico, purtroppo dimenticato, come Giuseppe Saragat, definiva: destino cinico e baro.
E c’è infine il vertice del degrado, il baratro in cui è precipitato questo novello Giobbe, un baratro che è la condizione necessitata per tirarsi fuori maelstrom che l’ha risucchiato e restituirgli l’agognata normalità.
Si tratta dell’ultimo passaggio, l’umiliazione, la resa incondizionata alla irriducibilità del corso delle cose che inesorabilmente offende la sua condizione umana.
L’accettazione della sconfitta, il suo degradare, approfittando della delusione che colpisce la moglie fedifraga, almeno agli occhi della gente, alla condizione sociale del “cornuto”, che si realizza col tornare sotto quel tetto coniugale dal quale era stato vergognosamente espulso.
Ma non si tratta di una scelta di comodo, quindi bollabile di opportunismo, quanto piuttosto di un atto consapevole di generosità spontanea, quella generosità che lo spinge a offrire il proprio perdono alla sua donna, che ha sbagliato e che si è resa conto di avere sbagliato.
C’è tutto ciò in queste pagine di un romanzo scandito da una narrazione pacata, che sfugge ai sensazionalismi e che, pur assumendo moduli diaristici, non è mai fredda o distaccata, ma è fortemente, direi meglio, passionalmente partecipata.