Un dolce tradizionale col nome sbagliato

Il “puparato”, dolce tipico del foggiano, caratteristico sapore pugliese

Chi ama i dolci tradizionali, speziati con garofano e cannella, non può non conoscere ed assaggiare un dolce caratteristico garganico, per la sua squisitezza e per la sua storia. A San Marco in Lamis lo chiamano il “peperato” (ma non ha pepe), a San Giovanni Rotondo il “propato” (?), a Monte Sant’Angelo il “poperato” (?), ma, ahimè, la gente “non ricorda”.




Era un dolce caratteristico anche del Carnevale. Quando si girava per le strade ballando, recitando e poi si entrava nelle case degli amici e dei familiari, era facile vederselo offrire, accompagnato semplicemente, ma fantasticamente, da un bicchiere di vino rosso paesano.
Il suo gusto, abbinato al vino, ti fa lievitare e ti trasporta in un'altra dimensione cioè: direttamente in paradiso. Se poi qualche pastore o contadino suona la chitarra battente o l’organetto a otto bassi, cantando le “strapolette”, caratteristici canti dell’antica cultura tradizionale garganica, vivi il perfetto “nirvana” (ed io l’ho provato).

In qualità di insegnante ed operatore culturale, ho frequentato molto quella parte di Gargano e sono ormai diventato “dipendente” di quel dolce. Siccome adoro il Gargano, il mangiarlo mi connette immediatamente con il mondo tradizionale di quell’angolo geo-culturale di eden.
È un dolce anche pasquale, ma soprattutto è il dolce del matrimonio. Quando li preparavano per il matrimonio, si entrava in un campo squisitamente religioso. Qualche settimana prima del matrimonio si incontravano tutti i familiari dello sposo, soprattutto donne, e preparavano le madie per impastare il dolce. Anche se nessuno se ne rendeva conto, per tradizione, quelle squisitezze dovevano essere “sacralizzate dal ballare e dall’impastare”. Le ragazze che impastavano, volendo o non volendo, imprimevano al corpo dei movimenti, degli ondulamenti, piuttosto provocanti. Durante o dopo la preparazione dei dolci si ballava ed allora c’era la ressa davanti alla porta perché i giovani volevano entrare per ballare con le ragazze.

Teniamo presente che si era in un’epoca dove i ragazzi potevano ammirare le ragazze solo all’uscita della chiesa, dopo la messa, sotto lo sguardo vigile delle mamme, oppure quando andavano a prendere l’acqua alla fontana e allora qualche giovanotto, facendosi coraggio, chiedeva alla ragazza il favore di bere. Era il tempo in cui i fidanzati dovevano accontentarsi, la sera, di salutarsi stringendosi le mani attraverso il “gattarulo”, cioè il tradizionale foro tondo praticato giù alla porta per far entrare il gatto o le galline. Era poco? Può darsi, ma sicuramente per loro era un vero “paradiso”.

Chi dirigeva i balli, e decideva chi doveva ballare, era il “compare” della coppia di futuri sposi che, in quell’occasione, si divertiva da morire, perché semmai in casa c’era la fidanzata di un giovane che voleva entrare e lui decideva, per farlo arrabbiare, di lasciarlo fuori. Anzi, poteva dire ad un altro giovane: “Giovanni vai a ballare con Maria!”… e quindi faceva ballare la fidanzata di quel poveretto con un altro giovanotto. Il ragazzo si adirava così tanto, al punto da urlare: “Compare Paolo io ‘strappo’ il nostro ‘sangiovanni’! ”. Cioè annullava la “comparizia”. Dopo qualche arrabbiatura, però, dopo aver confessato che si era trattato tutto di uno scherzo, Paolo, il “compare”, concedeva al giovane di ballare con l’agognata fidanzata.
Dentro la casa c’erano tante “ragazze da marito” e quindi i giovani “sbavavano” dietro la porta, correvano come le api al miele, e supplicavano il “compare” di farli entrare: “Compare Paolo tu sei stato sempre il mio migliore amico, proprio oggi non mi devi tradire, ché voglio parlare con Nunzia! ”.

Capite perché i dolci venivano “benedetti dal ballo e dall’impastare”? Perché si ripeteva il ritornello antico dell’Amore, impregnando quelle squisitezze di eros, di sentimenti, di gioie, ma anche di dolori. Ogni cosa era legata alle altre, dinamica difficilmente comprensibile oggi, nella civiltà dell’oggettivazione.
Non era finita, perché poi bisognava preparare i dolci a casa dalla sposa e quindi il rito si ripeteva. Non poteva mancare che si confezionasse il “propato ad esse”, che pare sia quello a doppio, cioè fatto di due cuori sovrapposti, ma ovviamente sfalsati e si chiamava “Lu prupàte de lla zìta”, che si usava anche mettere sul letto degli sposi (“Sòpe a llu lètte de lla zìta”). Quel “ad esse” era un’espressione ancestrale, ché significava a “serpente”, simbolo della componente maschile della coppia, mentre il dolce rotondo, come un grande tarallo, era simbolo di quella femminile.
A Sannicandro Garganico, durante il Carnevale, si preparava, con quel particolare impasto, la “pupa” e il “cervone”, cioè il serpente. Per descrivere le tradizioni legate al cervone ci vorrebbe una vera e propria enciclopedia. Una sua immagine antichissima si ritrova nella Grotta di Paglicci, dove un cervone cerca di mangiare le uova da un nido. A volte entrava nel pollaio ed era capace di nascondersi sotto le galline ed aspettare che facessero le uova. Quando ne aveva mangiate, ingoiandole intere, sei o sette, si arrotola attorno ad un albero, si stringeva ad esso e rompeva le uova che aveva nel corpo. Ma era anche molto ghiotto di latte e quindi stava sempre torno torno alla masseria. Spesso lo trovavano attaccato al seno di donne che allattavano, mentre dormivano tranquille in campagna e per non far piangere il bambino l’animale usava la tecnica di fargli succhiare la punta della sua coda. Questi serpenti, quando erano di stazza maggiore, si “fidanzavano con le mucche”. Si arrotolavano, questo dicono i pastori, alle gambe della mucca (“impastoravano la vacca”) e succhiavano il suo latte (infatti quel particolare cervone era chiamato “impastoravacca”). Il suo succhiare era così dolce che la mucca, nei giorni successivi a quello, ritornava sulla “scena del delitto” e muggiva per chiamarlo. Qualcuno pensa che stia divagando, ma non è assolutamente vero, perché sto mostrando la “mitologia” di questo particolare dolce.
Spesso, durante le feste, si infilava un certo numero di taralli in un asciugamano, per portarli assieme: se prendeva uno alla volta e si offriva, avendo però dimenticato l’antico significato e cioè che quell’asciugamano rappresentava, in qualche modo, il “serpente”.
Ovviamente, a questo punto, direte: ma qual è il vero nome di questo dolce?. Il suo nome è “puparato”, perché a Monte Sant’Angelo, oltre al grande tarallo si preparava la “pupa”, a Sannicandro la “pupa” ed il “cervone”, sui Monti Dauni si confezionava la “pupa” e la chiamavano la “puparata”, quindi il suo nome non può che essere il “PUPARATO”. Cioè una rappresentazione figurata dell’antica dea della primavera.

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19 May 2020

Daunia e Puglia tra storia e tradizioni


Angelo Capozzi



Foto dal web





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