Si è persa ormai l’idea che tutte le festività siano collegate all’anno liturgico pagano al quale la Chiesa Cattolica Cristiana non ha voluto apportare cambiamenti. Il popolo non li avrebbe accettati.
L’anno liturgico era organizzato nella parte jin (nero), che andava dal solstizio estivo a quello invernale (da San Giovanni Battista a Natale) e nella parte jang (bianco), dal solstizio invernale a quello estivo (da Natale a San Giovanni Battista).
Dopo il Natale seguivano il Carnevale, la Quarantana (periodo detto poi quaresimale), Pasqua, l’inizio del periodo dei morti (da novembre fino al 6 gennaio, quindi a cavallo dei due solstizi) per poi ripetersi ciclicamente.
Da questa sequenza si desume, e non ci sono dubbi, che il Carnevale era una festa religiosa, il cui inizio veniva deciso dopo aver individuato il giorno di Pasqua. Il Carnevale, che per i Romani era Saturno e per i più antichi Dioniso o Adone, moriva è veniva pianto dalla Quarantana, madre-sposa dell’Anno Vecchio. La Quarantana, come vera Moira, dopo aver spezzato il filo della vita, lo ritesseva. Ecco perché, per sintesi simbolica, la Quarantana aveva sempre in mano la conocchia, il fuso. Fino a qualche tempo fa le pupe nere erano ancora presenti sul Gargano, in particolare a Lucera e in altri paesi, una tradizione folklorica che sta tornando di moda.
In paesi come Rignano Garganico, la Quarantana svolgeva tutti i mestieri simbolizzati dal fuso della vita: filava, tesseva, cuciva, riparava. A San Giovanni Rotondo ho avuto modo di vedere la Quarantana più strana: una zampa di gallina, con sotto alcune penne. A Poggio Imperiale, invece della Quarantana, si usavano una serie di mestieri.
La Quarantana rappresentava Demetra dea del grano, antica protettrice di Foggia. Quando il chicco di grano moriva, sotto terra doveva tribolare per quaranta giorni (parole di un terrazzano) per poi rinascere. Morta la figlia Core o il figlio Dioniso, doveva ritessere la vita, filando e preparando, con una serie di attività, la nuova vita.
La vita della divinità non si poteva riparare perché impregnata di peccato, ma doveva essere rifilata. Un po’ come il fuoco di inizio anno che doveva essere riacceso, mentre il vecchio si lasciava consumare e spegnere.
La Quarantana si appendeva ad un filo steso tra due balconi e la gente, fino a 50 anni fa, ci parlava con quella pupattola. Era esposta al freddo e al gelo, in balia del vento.
Anticamente, sotto la gonna nera, aveva un arancia, oggi sostituito da una patata, più comoda nel trattenere le penne per quaranta giorni (i due frutti della terra dopo le sette settimane marcivano). L’arancia, il cuore delle streghe, era il simbolo principale usato nelle antiche rappresentazioni sacre per indicare la nascita della vita dalla morte. Il busto della vecchia spesso era rappresentato dal torsolo di una secca pannocchia ormai svuotata, che dai contadini veniva chiamata (quando aveva ancora i semi) “pupo” o “totaro”, rappresentazione del fallo maschile. Sotto questa pannocchia secca e svuotata veniva legato l’arancia. A quel frutto, in un giro orizzontale e centrale (sorta di equatore), venivano infilate sette penne, a rappresentanza della Quaresima, sei nere (le prime sei settimane) ed una bianca, che rappresentava la settimana Santa e la Pasqua. Ogni settimana si staccava una penna, che generalmente era di gallina. Nella Settimana Santa si toglieva l’ultima, quella bianca.
Spesso la Quarantana veniva bruciata, per i motivi già esposti, ma nel tempo si sviluppò la tendenza di conservarla, per non rifare ogni anno la stessa fatica nel ricostruire la pupa nera con la testa bianca.
Era un calendario? Sembrava tale. In realtà era una vera e propria rappresentazione di Demetra nel tempo religioso legato alla penitenza.
In alcuni paesi, non della Daunia, a Demetra si metteva il vestito rosso della “Pacchiana”, cioè di Core-Persefone, figlia della stessa, per indicare che era rinata a primavera.
A questo periodo di astinenza dai cibi grassi e dalla carne, si univa l’obbligo di mangiare solo verdure. Il popolo era assai triste in questo periodo, ma per fortuna c’era, nella settimana di Quaresima, il Carnevalicchio, col rito dionisiaco della Pignatta, che spezzava la tristezza e poi ancora, a metà Quaresima, “Sega la Vecchia”, quando si ballava con la Quarantana rappresentata da una scopa. Tutti ballavano, cosa che non si non si sarebbe potuta fare in Quaresima; l’uomo spesso ballava in coppia con la scopa-quarantana. Dopo un po’ di giri, era usanza che uno degli uomini toglieva la dama ad un altro uomo e gli dava la scopa, con la quale il poveretto era costretto a ballare, fino a che non la passava ad un altro cavaliere.
Dopo i divertimenti e le mangiate carnevalesche, tipiche anche della festa della Pignatta, si segava la vecchia per simbolizzare (ma era di più di un semplice simbolo) la riduzione del tempo quaresimale. Come la mazza della scopa, oramai, la Quaresima si era ridotta alla metà, grande motivo di incoraggiamento per i penitenti.
La Chiesa, che ha ereditato la Quarantana pagana, ha pensato bene di chiamarla Quaresima e, a volte, Maria Addolorata, riverita con i “Giardini di Adone” (i “sepolcri”), ma questo apre tutto un altro capitolo.