Generalmente quando si giunge a dicembre la nostra mente immediatamente corre alla figura del Cristo bambino al freddo di una stalla secondo l’immagine tramandataci da san Francesco d’Assisi il quale per primo realizzò il famoso Presepe di Greccio nel 1223. È Dio, che assume la “dimensione umana”, s’incarna per vivere alla maniera degli uomini, per compiere un viaggio nei nostri limiti e nelle nostre fragilità. Dante ci racconta di questo Dio di Amore nell’Empireo, Cielo di Luce (Pd. XXXIII), che «s’indova» (Pd. XXXIII, v.138), che entra nella nostra più profonda intimità, nel nostro cuore.
Egli è «colui che tutto move» (Pd. I, v.1) in maniera incessante, intellettuale, meditativa per andare incontro all’uomo, trasformando il Suo amore misericordioso in realtà. Ed è proprio la realtà che Egli vuole mostrarci, il mondo fisico visto dai Suoi occhi, la meraviglia dell’essere e nell’essere, come «passione impressa» (Pd. XXXIII, v.59), ricordandoci sentimenti che, anche se non presenti nell’immediatezza, ci legano alla storia perché sono la nostra memoria.
E per mostrarci la realtà Dio «si squaderna»: fa saltare le legature del grande libro della Salvezza «legato con amore in un volume» (Pd. XXXIII, v.86), facendone volare i fogli, per poi riunire tutto in un unico “quaderno” ordinato e salvifico. Per salvarci, dunque, si incarna nella Vergine Maria e vive come uomo tra gli uomini, fino alla passione, morte, resurrezione e trionfo.
Dante, nel XXIII del Paradiso, descrive Cristo come «lucente sustanza» (Pd. XXXIII, v.32) nel Cielo delle Stelle Fisse. Egli è in trionfo, vittorioso, circondato da schiere di beati e da turbe di angeli. Cristo è “possente”, coronato di vittoria sulla morte, sul male. Ma non è un trionfo in stile romano, in cui i bottini di guerra e i nemici precedono in parata il carro del vincitore coronato di alloro. Il bottino di Cristo è formato dalle «schiere» (Pd. XXIII, v.19) di beati e giusti che Egli, prima attraverso la predicazione e dopo scendendo nell’inferno, ha portato con sé nel Cielo. Le Sue «schiere» e le Sue «turbe» (Pd. XXIII, v.82) non hanno il significato bellicoso o militare romano ma quello naturale di “stormi di uccelli”: non procedono in ordine di corteo, ma si dispongono in forma “nebulare” intorno all’Unica fonte di Amore e Luce a cui alzano lo sguardo. Essi, inoltre, sono paragonati ai fiori di campo che aspettano un raggio che attraversi la nube e che li scaldi con il suo calore. Non è, dunque, semplicemente un trionfo vittorioso, ma un tripudio di gioia, di esultanza collettiva per la salvezza donata e raggiunta. È il giubilo universale della Resurrezione. È moto ascensionale che conduce a Cristo come Sole Invitto.
In Lui, nel XXIII del Paradiso, si fondono le quattro fasi del ciclo solare (Sol occidens, Sol septentrio, Sol oriens e Sol meridiens), che rappresentano non solo tutta la sua vita ma anche tutto il significato escatologico della salvezza (Incarnazione, Passione, Resurrezione e Ascensione). Dante, insieme a Beatrice, volge il suo sguardo a Lui che è “Alba”, “Ri-nascita”, Sol Oriens, Sol Occidens, Sol Salutis e, infine, seguendo la rotazione terrestre, quando giungerà nel punto più a nord del cosmo, SOL INVICTUS.
Cristo è, nel XXIII del Paradiso, per Dante, Colui che «la sapïenza e la possanza/ ch’aprì la strada tra l’cielo e la terra» (Pd. XXIII, vv.37-38), che aprì la strada tra l’Empireo e il mondo fisico, tra la dimensione divina e la natura umana, tra l’Incarnazione e l’Ascensione. Il Trionfo di Cristo, dunque, celebra e glorifica tutta l’umanità redenta e risorta.
Attraverso questa possente immagine, Dante attribuisce importanza a tutti noi uomini anche nel Paradiso, sostenendo che, malgrado la “distanza” che il luogo sembra avere dalla Terra, esso non è lontano. Dio, infatti, per Sua inintelleggibilità e ineffabilità, si è fatto uomo nel Figlio, il Cristo, per venirci incontro e permetterci di tornare, dopo l’esilio terrestre, a godere del «triunfo etternal» (Pd. V, v.116).