“Siamo proprio come le canne al vento, donna Ester mia. Ecco perché! Siamo canne e la sorte è il vento”…
È, questa, una delle frasi più penetranti ed incisive di Canne al Vento, il capolavoro di Grazia Deledda, un’autrice feconda e immaginifica molto spesso dimenticata dai libri e della quale si è parlato e si parla molto poco. A sottolinearlo è Alberica Bazzoni letterata e ricercatrice, quando fa emergere, nel suo scritto Il Genere della Letteratura: la Storia (23/5/2016), la forte marginalizzazione delle donne scrittrici che finiscono spesso nel dimenticatoio e, riferendosi a Grazia Deledda, ne è venuto fuori che su tredici manuali scolastici tra quelli più utilizzati al liceo, la Deledda è assente in ben otto di questi! Eppure questa donna tenace, figlia della sua terra, che non ha goduto neanche delle simpatie dei suoi conterranei, è stata l’unica donna italiana a vincere un Nobel per la Letteratura (1926) dopo la svedese Selma Lagerlof.
Grazia Deledda nasce in una famiglia benestante, il padre, avvocato ma agiato imprenditore amante della poesia, lascia che la madre, donna severa e rigida, educhi la figlia. Grazia frequenta la scuola fino alla quarta classe, poi viene seguita privatamente da un ottimo insegnante per poi proseguire la sua formazione da autodidatta, formazione considerata da molti critici un punto a sfavore ma che si rivela, invece, un punto di forza ed una risorsa originale per i suoi scritti.
Grazia Deledda comprende presto che la società patriarcale è in declino, non è più capace di coltivare e promuovere le nuove istanze che affiorano nelle nuove generazioni e non è facile per lei, arguta precorritrice dei tempi, sfidare la complessità di quel mondo chiuso e ombroso della Nuoro di allora dove il destino della donna si compie esclusivamente tra le pareti domestiche. Cerca così, dopo aver preso coscienza delle sue notevoli capacità e sentendosi superiore a tutte le ristrettezze della società di allora, nuove strade, nuovi modelli di comportamento e nuovi stimoli culturali per soddisfare le sue esigenze e rispondere alle nuove istanze sociali.
Inizia quindi a tessere nuove e feconde relazioni, cerca ambienti sociali più aperti e stimolanti, comunica con molti dei letterati del tempo ma senza per questo perdere la sua identità e pur essendo in conflitto con quel tipo di società ormai in declino, non ne tradisce o ne rinnega mai la sua radice identitaria profonda. Lei è e resta sempre legata alla sua terra, ed anche se la sua ribellione viene interpretata dagli isolani come un tradimento, convinti che la Deledda nei suoi scritti descriva la Sardegna come terra rude, primitiva ed arroccata a vecchi pregiudizi mentre tutta la sua produzione letteraria testimonia, invece, esattamente il contrario.
Grazia Deledda affronta molte battaglie per dare forma e consistenza alle sue aspirazioni più profonde, per seguire quell’inestinguibile richiamo interiore verso la scrittura ma niente e nessuno riuscirà mai a fermarla. Anche il marito, convinto e conquistato dalle sue notevoli doti letterarie nonché dai suoi numerosi successi, lascia il suo lavoro e diventa agente letterario della moglie. Molto ricca e vasta la sua produzione letteraria: racconti, romanzi, novelle, raccolte, novelle per bambini, drammi, lettere, saggi, pubblica e collabora con numerose riviste e giornali rinomati, e molto altro ancora. Da sottolineare la bellissima raccolta di poesie Paesaggi Sardi in cui offre della sua amata e mai dimenticata terra, immagini forti, spettacolari, pregnanti e pertinenti che rendono bene le sensazioni del territorio e fanno della sua Isola un luogo magico, intimista e favolistico.
I primi romanzi della scrittrice, ambientati nel mondo sardo, risentono molto del Verismo e del Naturalismo tanto che lo stesso Luigi Capuana la esorta a proseguire su questa strada indagando ed esplorando la società isolana. Di diversa opinione il critico letterario Natalino Sapegno secondo il quale molti sono i motivi che la distolgono dai canoni del Verismo tra i quali la sua natura lirica, l’aver attinto, per le sue storie, dalla sua autobiografia e da esperienze personali per cui i riferimenti all’ambiente non sono altro che trasfigurazioni delle sue memorie, dei suoi ricordi mentre le vicende e i personaggi non sono che le proiezioni dei suoi sogni.
A lei manca, sempre secondo il Sapegno, quell’atteggiamento di distacco che è proprio dei Veristi (Verga, Capuana, Pratesi). Altro ancora il parere del critico Vittorio Spinazzola per il quale la Deledda è molto più vicina al Decadentismo in quanto il meglio della sua produzione letteraria pone l’accento sulla crisi esistenziale in cui l’uomo si dibatte, nel suo smarrimento, nelle sue perplessità, nel suo cercare sensazioni forti lasciandosi guidare dagli istinti e smarrendosi in ogni esperienza di vita.
Attilio Momigliani invece, accosta la nostra autrice ai grandi romanzieri russi perché la Deledda, afferma, è “un grande poeta dal travaglio morale da paragonare a Dostoevskij”.
E non è certo lontano dalla verità in quanto la Nostra, pur sentendosi attratta ed ispirata dal D’Annunzio, ama moltissimo i grandi narratori russi tanto che nella ricerca del suo stile personale, ferma la sua attenzione proprio su Leone Tolstoj.
Grazia Deledda, come tutti i Grandi che si rispettino, non è certo una figura alla quale apporre un’eti-chetta ma è un talento indiscusso ancora tutto da scoprire e la critica moderna pare si stia muovendo in tal senso.
La produzione letteraria della Deled-da ruota essenzialmente sul valore morale del patriarcato del mondo sardo e le sue atmosfere basate sull’intensità degli affetti spesso pri-mitivi e selvaggi e sull’imperscru-tabile natura dell’uomo che sembra vivere un dramma continuo e lace-rante su quella piccola scacchiera che è la vita. Su tutto aleggia ed incombe inesorabilmente un oscuro destino, o il cieco fato che condi-ziona l’esistenza umana e non ammette nessuna possibilità di redenzione o di riscatto. La sorte, per l’autrice, è concepita come “malvagia sfinge” e l’essenza della vita si può cogliere solo nella sua profonda tragicità. Una visione questa, che l’avvicina sempre più ai grandi scrittori russi sia pure con i dovuti distinguo.
La narrativa della Deledda si basa su sentimenti forti, struggenti, su vicende d’amore, di dolore, di morte sui quali domina il senso quasi mistico ed impenetrabile del peccato e della colpa e la consapevolezza dell’ineluttabilità del destino. Nel profondo di ogni creatura convivono forze possenti in antitesi tra di loro che squarciano e dilaniano la loro vita, un processo dialettico continuo tra le indomabili pulsioni primordiali e passionali e le regole rigide e inflessibili di una società ancora legata a dogmi e pregiudizi primitivi. l’eterna lotta tra bene e male, tra pulsioni interne e proibizioni esterne, predestinazione e libero arbitrio e da tutto questo nasce la colpa, fardello pesante che annienta le forze vitali e logora la possibilità di essere se stessi.
L’uomo non è più carne e sangue è un fantasma che si muove tra la consapevolezza del peccato e il desiderio, tra colpa e bisogno di espiazione, di castigo, di purificazione, di catarsi. Ma il cammino è lungo e gli effetti della colpa spesso incombono sulle miserie di una umanità errante e primitiva intrappolata tra ansia e inquietudini profonde, tra il bisogno di appagare i propri impulsi e l’angoscia quando ciò di cui sente il bisogno si scontra con i divieti sociali e le regole morali e religiose ed il paesaggio dell’anima si configura come eterna lotta tra l’essere ed il dover essere.
Ed è questa l’atmosfera in cui si muovono i personaggi della scrittrice che scava, graffia con lucida penna nel profondo, non solo per portare alla luce l’errore e la colpa ma per costringere l’uomo a prendere coscienza che il male esiste e, nello stesso tempo, a fare i conti con se stesso pur sapendo che non ci può essere conciliazione tra pulsioni e realtà, tra bene e male, tra colpa e dolore.
L’uomo, creatura fragile, sottomessa al Destino, deve vivere fino in fondo il suo personaggio da tragedia, il suo dramma ed accettare il dolore e i limiti della sua esistenza perché la vita è e resta un mistero. L’uomo può solo convertire il dolore in esperienza di vita e rivolgersi alla Grazia di Dio per trovare la sua pace o sperare nel bene lenitivo della pietà, intesa come sentimento misericordioso che induce al perdono.
Ed è nel suo capolavoro, Canne al Vento, che si muove lo spirito che anima i suoi personaggi, si delinea la sua filosofia di vita e si concretizza la vastità del suo pensiero. Il titolo del romanzo proviene da un’opera della stessa autrice, Elias Portolu, del 1903 Uomini siamo Elias, uomini fragili come canne, pensaci bene. Al di sopra di noi c’è una forza che non possiamo vincere... Tuttavia la metafora dell’uomo, canna non è nuova, era già presente nell’opera Pensieri di Blaise Pascal anche se la visione della scrittrice sarda è più pessimista di quella del filosofo. Pascal intravede nell’uomo la possibilità di redenzione perché dotato della ragione e della morale, Grazia Deledda no, il suo è un pessimismo più profondo e senza possibilità di riscatto.
Il romanzo celebra la fragilità dell’uomo, il dolore dell’esistenza, ad emergere è l’immobilismo di personaggi disorientati, rinchiusi in un cerchio di forte apatia a recitare quel ruolo che la società ha loro imposto restando intrappolati in una forza sconosciuta e più grande di loro alla quale non possono sottrarsi e il destino non ammette redenzione.
Sono personaggi solitari e taciturni chiusi in quell’isola che per loro resta l’unico mondo esistente, la loro anima è attraversata e attanagliata da un groviglio di sensazioni oscure e contrastanti dove si aggirano come in una selva cieca. In tutto questo Grazia Deledda si avvicina a Fiodor Dostoievski che aveva già legittimato l’esistenza del male e la sofferenza dell’uomo nel suo dibattersi tra colpa ed espiazione ma mentre Dostoievski concentra maggiormente la sua attenzione sulle dinamiche dell’ inconscio e sulla forte tendenza all’autoanalisi (prefigurazione di Freud) ed è convinto che per l’uomo non ci sia redenzione dal peccato se non con la morte, per Grazia Deledda l’uomo, pur essendo in balia del male, non è un ramo secco ma una canna che, seppure viene piegata e scomposta a causa del vento, non si spezza e trova in se stesso la capacità di far fronte al proprio destino.
Anche Nicola Tanda nel suo Saggio La Sardegna di Canne al Vento scrive che in quel romanzo le parole evocano memorie Tolstojane e Dostoevskiane e afferma …
“L’ intero romanzo è una celebrazione del libero arbitrio. Della libertà di compiere il male ma anche di realizzare il bene, soprattutto quando si ha esperienza della grande capacità che il male ha di comunicare angoscia. Il protagonista che ha commesso il male non consente col male, compie un viaggio, doloroso, mortificante, ma anche pieno di gioia nella speranza di realizzare il bene, che resta la sola ragione in grado di rendere accettabile la vita” Ed è in questa l’atmosfera sconfortante che si muovono i personaggi travagliati della Deledda e si consuma il dramma della fragilità esistenziale che richiama brandelli di vita simili ai pensieri del pastore errante dell’Asia leopardiano o a uno degli umili manzoniani. Fa da sfondo al dramma l’amena bellezza dell’isola, immagini di una bellezza primitiva, icastica, incontaminata e selvaggia con i suoi paesaggi da favola, descritti dalla Deledda come luoghi fantastici e straordinari che esplodono in tutto il loro sfolgorante splendore al calar della notte, quando tutto diventa surreale, magico, animistico, un mondo suggestivo, che rende l’isola un luogo di puro sogno. Uno scenario, quello deleddiano, dove si fondono, con tenacia, gli stati d’animo dei protagonisti e il loro mondo così ancestrale e primitivo proiettato in una dimensione quasi mitica. Nella prosa della Deledda, infatti, è sempre presente una “commistione carnale tra gli uomini e l’aspra terra” (Nicola Tanda).
Il romanzo si snoda attraverso le vicende delle quattro sorella Pintor, di Efix il fedele servo, di Giacinto, il giovane bello e tenebroso e altri personaggi minori che partecipano agli eventi e si legano ai protagonisti con la loro genuina saggezza. Tutto gravita in quello spazio in cui la dimensione del tempo sembra essersi fermata e gli eventi si consumano tra le pareti discrete della coscienza dei protagonisti. Avvicinarsi ai personaggi del romanzo è come viverli dentro, annaspare con le loro debolezze, i loro desideri repressi, il loro grande senso di frustrazione e di colpa e quel vuoto esistenziale che li accomuna in una sorta di atavica rassegnazione. Aleggia sul tutto il fantasma di Don Zame, quel padre padrone, “rosso e violento come il diavolo” possessivo e geloso dell’onore e della reputazione della famiglia, senza capire che la società patriarcale è ormai in declino e Lia, ultima delle sue figlie, ne è la prova quando, per sganciarsi dalla vita opprimente e dalle imposizioni paterne, scappa dall’isola per “prendere parte alla festa della vita”. Le prime due sorelle di Lia, Ruth ed Ester sono creature rassegnate, che assistono, incapaci di ribellarsi, al declino della loro giovinezza, donne ammantate di profonda mestizia e cruda malinconia che lasciano sedare il loro vecchio orgoglio in un immanentismo esistenziale da cui nessuno può più salvarle. Noemi, la terza delle sorelle, ancora giovane e piacente ed anche se risente dell’orgoglio dei Pintor, cerca di ribellarsi e sciogliere quei legami che la tengono ancora inchiodata ai vecchi pregiudizi.
Personaggio dal nome mitologico, a differenza delle zie dai nomi biblici, è poi Giacinto, il figlio di Lia, l’eros, la passione per eccellenza, il punto di rottura tra vecchio e nuovo che mette a dura prova l’equilibrio tra l’uomo e il territorio, tra le regole stabilite e le pulsioni interiori, ed è l’unico, che nella vicenda, smuove lo status quo delle cose. Efix invece, il servo fedele delle sorelle, è l’anello di congiunzione tra tutti i personaggi e gli eventi. Taciturno e schivo, porta in sé una sottile angoscia infantile mista ad un senso di inferiorità e di abbandono, vive solo nel suo mondo interiore, con le sue riflessioni, le sue fantasie, spesso non coglie appieno il significato delle sue azioni ma sente agire in lui una forza sovrumana che lo guida verso il bene. Efix è lacerato da un forte senso di colpa per aver causato accidentalmente la morte del padre delle sorelle Pintor, e convive con un forte scombussolamento interiore, che, col tempo, lo trasforma in un “pastore errante” finché non arriva alla conclusione che la vita dell’uomo è solo dolore, l’uomo nasce, vive e muore attraversando tutta la lunga linea del dolore. Solo dopo aver riconosciuto che nessun uomo può sottrarsi al dolore, Efix accetta la sua colpa, la interiorizza, la trasforma in esperienza e la vive con la consapevolezza di dover trovare in se stesso la capacità di far fronte al proprio destino. Efix rappresenta le verità più profonde dell’animo umano, i suoi tormenti, la sua infinita precarietà, l’uomo è solo, in balìa degli eventi mossi dal Destino e può essere da questo sbattuto e flagellato ma non spezzato. Efix lotta così fino all’ultimo, accanto a Ruth, Ester, Noemi e Giacinto, offre loro tutto di sé fino al sacrificio estremo, piegato dalla colpa e dalla sofferenza ma mai abbattuto. Il vento ha fatto tremare e piegare le canne ma non le ha spezzate. Alla fine, Giacinto ha ripreso in mano la sua vita e si è sposato, Noemi col matrimonio ha salvato se stessa e la famiglia dalla miseria ed Efix, con la nuova svolta della famiglia Pintor, sente di aver espiato la sua colpa. Anche il legame dei protagonisti con la loro terra, col ritorno di Giacinto nel paese della madre, non si è spezzato nonostante il vento abbia soffiato sugli eventi.
Un romanzo che consacra Grazia Deledda tra i grandi della Letteratura perché, per dirla con Attilio Momigliani … “Nessuno dopo Manzoni ha arricchito e approfondito come lei in una vera opera d’arte, il nostro senso della vita.”
Volendo oggi riflettere sui temi affrontati da Grazia Deledda nel suo capolavoro, non possiamo negare che la sua visione dell’uomo e del senso della vita, resta, in parte, ancora attuale pur dovendola necessariamente contestualizzare nel nostro tempo La consapevolezza della fragilità umana rispetto agli accadimenti della vita resta, ancora oggi, un dato di fatto così come il dolore e l’angoscia che ne derivano.
Più incisivo e profondo rispetto ai personaggi di Grazia Deledda, è il senso di solitudine e di frustrazione che grava oggi sull’uomo, il suo travaglio interiore per quel male di vivere che avverte e di cui ha preso maggiore coscienza nonostante la celebrata grandezza della civiltà moderna. Stranamente infatti, più l’uomo raggiunge traguardi ineguagliabili più si riconosce debole, col suo irrefrenabile desiderio di voler dominare ogni cosa rischia di essere dominato dalle cose stesse. La debolezza non è più quella che ci ricorda l’Apostolo Paolo…” quando sono debole è allora che sono forte…” (2 Corinzi 12, 10), ma se nella debolezza dell’Apostolo si manifesta la potenza di Dio, in quella dell’uomo di oggi si manifesta il suo limite. Se nel capolavoro della Deledda di fronte alle ingiustizie ed alle avversità l’uomo è ancora capace di reagire… canne siamo ma non rami secchi, piegati ma non spezzati”, nella realtà odierna l’uomo tende alla rinuncia, all’indifferenza, alla negazione di se stesso, vivendo un nuovo frustrante senso di abbandono. Anche il Destino o la “mala sorte” che per i personaggi della Deledda resta una forza oscura, sovrannaturale di cui tutta l’umanità è preda, per l’uomo odierno riveste un ruolo meno determinante, meno trascendente in quanto il destino dipende anche dalle nostre scelte oppure da scelte altrui che comunque possono condizionare il nostro modo di vivere. E oggi più che il destino, a determinare le nostre scelte sono i condizionamenti sociali, la globalizzazione e la conseguente omologazione di massa che stanno riducendo la facoltà di giudizio e di valutazione proprie dell’attività del pensiero richiudendo l’uomo in un recinto, in un limbo dove contano più le convenzioni che la ragione e dove non esisterà più l’identità culturale dei popoli. In questo modo, scoprendo di non essere più se stesso ma ciò che altri vogliono che sia, l’uomo rivivrà un nuovo e più cruento smarrimento spirituale e psicologico, ritornerà ad essere una creatura sempre più fragile, debole, sbattuta da nuovi e possenti venti, incapace di ascoltare la propria anima, vivere le proprie emozioni, meravigliarsi di fronte alla bellezza della natura. L’uomo non sarà più capace di frequentare la vera scuola della vita, quella scuola dove ha attinto a piene mani Grazia Deledda e che l’ha resa grande e famosa e ha reso grande la sua arte come lei stessa afferma in questo piccolo stralcio…” Ho visto l’alba e il tramonto, il sorgere della Luna nell’immensa solitudine delle montagne, ho ascoltato i canti, le musiche tradizionali e le fiabe e i discorsi del popolo. E così si è formata la mia arte, come una canzone o un motivo che sgorga spontaneo dalle labbra di un poeta primitivo…” (Dal Discorso di Grazia Deledda, di accettazione del Premio Nobel per la Letteratura, Oslo, 10 dicembre 1926).