Maria Oliverio e la banda Monaco
Maria Oliverio, detta “Ciccilla” – forse in omaggio o forse in dispregio di “Franceschiello”, Francesco II re delle Due Sicilie) – all’interno del vivace e popolato panorama del brigantaggio al femminile è considerata la più famosa donna brigante della Calabria (dov’era nata, a Casole Bruzio, il 30 agosto 1841) e del Regno delle Due Sicilie.
“Ciccilla” a soli 17 anni va in sposa a Pietro Monaco, futuro brigante inizialmente soldato dell’esercito del Regno delle Due Sicilie. La prima occasione in cui emergono la fermezza e l’efferatezza di Maria Oliveiro è rappresentata dall’uccisione di Teresa, sua sorella maggiore: Maria scopre una relazione clandestina con suo marito Pietro e non esita a ucciderla nel sonno.
La banda del coniuge opera prevalentemente in Sila, la Oliverio acquisisce in fretta “benemerenze” tali da consentirle di farne parte, scalando rapidamente le gerarchie e segnalandosi per l’audacia nell’azione e l’abilità con le armi bianche e da tiro.
Soprattutto in due azioni di un certo rilievo svolge un ruolo di primissimo piano: il rapimento dei cugini Achille Mazzi e Antonio Parisio che frutta l’ingente somma di 20.000 ducati utili a “finanziare” il successivo sequestro di numerose persone tra cui nobili, sacerdoti e vescovi. Siamo ad Acri, Cosenza, nel 1863.
A tutto ciò vanno aggiunti ricorrenti furti, violenze, incendi e omicidi in cui Maria Oliveiro interpreta sempre un ruolo attivo e determinante.
Il declino e la condanna a morte
Il 1863, tuttavia, registra anche la fine della banda Monaco: le è fatale l’arrivo in Calabria del generale Giuseppe Sirtori, già Capo di Stato Maggiore dei Mille, che riesce a sgominarla.
È la vigilia di Natale allorché Monaco viene ucciso a tradimento da un suo uomo di fiducia: Cecilia, con tempestività e lucidità non comuni, si affretta a decapitarne il corpo e ne brucia la testa per impedire che i piemontesi la espongano come trofeo. Ella stessa è catturata su delazione di un componente della banda. Processata dinanzi al Tribunale di Guerra di Catanzaro, deve rispondere di ben 32 capi d’accusa. Condannata a morte – pena poi commutata in ergastolo da Vittorio Emanuele II – muore probabilmente nel 1878 dopo aver trascorso il resto della sua vita nel carcere di Fenestrelle, nei pressi d Torino.
Amanti ma anche abili guerrigliere
Storie di brigantesse – giovani mogli, madri, amanti, “pasionarie” animate dalla voglia di riscatto sociale in lotta per difendere i loro ideali, l’indipendenza del proprio territorio e non solo – che si uniscono alle bande di uomini che operano prevalentemente in Campania, Basilicata, Calabria, Puglia, Molise, nel Regno di Napoli e delle Due Sicilie. Nell’immaginario popolare spesso riduttivamente considerate soltanto amanti del capo o, più spregiativamente, donne di piacere; in realtà hanno svolto un ruolo risolutivo, lottando con decisione e, talvolta, con spietata crudeltà. Spie, con abilità militari insospettabili, partecipano alle operazioni di guerra, riforniscono i loro compagni, curano i feriti. Quasi sempre catturate e condannate a morte.
Michelina Di Cesare, pioniera della comunica-zione
diatica. Fa, infatti, largo uso della fotografia, lasciandosi ritrarre, e diffondendo l’immagine, in costume tradizionale da contadina, con le armi in pugno: lo “scatto” sarebbe stato effettuato in uno studio fotografico di Roma, durante una delle fughe strategiche nel regno papale.
Ferocia e determinazione, ma senza rinunciare a un pizzico di vanità femminile…
L’uso strumentale della fotografia, però, appartiene anche alla consuetudine della propaganda sabauda. Così che dopo l’uccisione della Di Cesare in uno scontro a fuoco il suo corpo viene denudato e fotografato e le immagini utilizzate dai Savoia al fine di far credere che sia morta sotto tortura.
Il brigantaggio nel suo destino
Nata nel 1841 in un’umile famiglia di Caspoli, frazione di Mignano Monte Lungo, in provincia di Caserta, Michelina Di Cesare, poco più che adolescente, comincia il suo “apprendistato” mettendo a segno furti e reati di abigeato al seguito del fratello Giovanni.
Dopo un primo matrimonio durato soltanto alcuni mesi, nel 1862 conosce Francesco Guerra, già soldato borbonico renitente alla leva, assurto al ruolo di capo della banda di Domenicangelo Cecchino “Rafaniello”, alla morte di quest’ultimo. Michelina ne diviene la donna e lo segue in clandestinità, imponendosi come punto di riferimento fondamentale. Il drappello guidato da Francesco Guerra opera secondo la collaudata tattica della guerriglia, con attacchi di poche unità che, ad azione compiuta, si disperdono nella boscaglia per poi ricomporsi in luoghi prestabiliti.
Una morte violenta
Michelina Di Cesare muore il 30 agosto 1868, anno che segna l’avvio del declino del fenomeno del brigantaggio nel Casertano. Nella zona, infatti, giunge il generale Emilio Pallavicini di Priola (in seguito tra i protagonisti, nel 1870, della Presa di Porta Pia) che attua una veemente repressione delle bande operanti sul territorio, non disdegnando di affidarsi a delatori lautamente ricompensati. Michelina Di Cesare ne rimane vittima, incappata in un agguato fatale.
Maria Giovanna Tito, “iena” tradita ma fedele
Conserva un alone di mistero l’intera esistenza di Maria Giovanna Tito, brigantessa lucana che ha operato in periodo post unitario e della quale non sono certe le date di nascita e della morte.
Di lei si sa che l’8 maggio 1863 è presente attivamente a Calitri, interpretando un ruolo di spicco in un’azione di contrasto tra un gruppo di briganti capitanati dal noto Carmine Crocco e un plotone di Ussari di Piacenza. La Tito è con altre compagne che decidono di non abbandonare i propri uomini nei momenti cruciali del combattimento: lei è legata sentimentalmente proprio a Crocco. L’aveva conosciuto in un frangente drammatico, allorquando lo stesso Crocco, saccheggiando Ruvo del Monte, paese natale della donna, l’aveva portata via con la forza. Seguendo la banda, Maria Giovanna s’innamora del suo aguzzino trasformandosi in una brigantessa spietata a tal punto da meritarsi il soprannome di “iena”. A lui rimarrà fedele per tutta la vita, anche quando Carmine la lascerà privilegiando una nuova avventura amorosa.
La “carriera” da brigantessa di Maria Giovanna Tito, tuttavia, risulta tanto intensa quanto breve: l’anno successivo ai fatti di Calitri, infatti, rimane vittima di un tradimento da parte della sua “collega” Filomena Pennacchio e fatta arrestare.
La delazione, pratica molto diffusa nell’intricato mondo del brigantaggio, ha consumato la sua ennesima vittima.