Paese di guadi una testimonianza storica, espressione di un territorio o di una generazione. Opera maestosa, lasciata al palo sia perché frutto di un bisogno spontaneo di esternazione, senza alcuna velleità editoriale e in seguito, quando già l’Autore riprese a esaminarla fu nuovamente tralasciata per dare spazio ai due romanzi Sopra non appare alcun cielo (2019, Robin-La Biblioteca del Vascello, Torino) e Il bosco di Marx (2021, Prospero, Milano).
Non è semplice descrivere una fatica letteraria complessa di oltre mille pagine e il bisogno da cui è scaturita e lascio che sia Marco Quarin a parlarne, sottolineando l’esigenza della pubblicazione a distanza di anni e poi le ristampe con lievi modifiche.
Agli amici scrittori, lettori, critici, o semplicemente curiosi vorrei far conoscere qualche dettaglio in più sulla ormai quinquennale vita del bulimico Paese di guadi. E io voglio essere onesto con chi lo ha ricevuto e lo riceverà. Procedo per punti.
Una sera, metà degli anni Ottanta: chiacchiere e ricordi fra cinque amici, ex compagni di scuola. Con le chiacchiere ci interrogavamo sul senso dell’epoca che stavamo vivendo. Per un verso ci sentivamo “reduci di un’epoca interrotta” (gli anni Sessanta e i primi dei Settanta), per l’altro provavamo rimorso, ancora non ci era chiaro di che cosa, come disse il poeta. Eppure percepivamo le avvisaglie di una civiltà orfana di ideali e, forse, impoverita nei valori. Ci sembrava si fosse definitivamente allontanata la prospettiva di lasciare il mondo migliore di come l’avevamo trovato. Per contrastare il pessimismo non riuscivamo, quella sera, a disancorarci dai ricordi, che si riproducevano come conigli in una riserva di caccia. Chi raccontava delle lotte studentesche del 1969, chi quelle operaie a Porto Marghera, chi evocava la rivoluzione musicale, chi quella degli abiti, delle abitudini e dei costumi sociali. Sembrava che l’orologio si fosse fermato a una stagione della vita: la giovinezza, la nostra giovinezza. E io, più tardi, mi sono domandato se solo la giovinezza, o non anche qualcosa di più profondo, ci avrebbe legato al ricordo di quegli anni.
Quella sera io avevo raccontato la porzione del Friuli dove sono nato e ho trascorso le vacanze estive da liceale, negli anni Sessanta. Era il Friuli contadino e paleoindustriale (Pasolini) che si stava disfacendo e lasciava un vuoto che di lì a un paio di decenni sarebbe stato colmato dalla “pappa unificante” del consumismo. Nelle realtà urbane e industriali come quella dove tuttora vivo, la società correva troppo in fretta per il Friuli arretrato, terra di contadini poveri ed emigranti. Forse è stata questa presa di coscienza ad assecondare l’impulso a lasciare su carta i miei ricordi di quel mondo, come legame a una forma di speranza di cui mi sentivo già orfano.
In che periodo ne inizia la stesura, o almeno comincia a mettere su carta il mondo che le girava intorno risucchiandola al suo interno?
Ho iniziato Paese di Guadi nell’ottobre del 1989 e l’ho terminato nel febbraio del 1992. L’ho scritto con l’inchiostro della penna sulla carta di diciannove quaderni (allora i programmi di videoscrittura erano quasi agli albori), con la caparbietà che può avere chi è, o ritiene di essere, testimone di un tempo “storico”. Desideravo ricapitolare l’ambiente e il clima di una stagione “friulana” che avevo vissuto in un’epoca che era stata anche la mia. Non per salvarla dall’oblio, non per rimpiangerla, non per condannarla o esaltarla, bensì per capirla, dalla distanza che l’età e la vita avevano frapposto fra me e quella stagione.
Fin dall’inizio, mi sono sforzato di non cadere nella trappola della nostalgia aneddotica per un Friuli che non c’è più, e già allora non c’era più. Mi sono concentrato sul travaglio dei giovani figli di contadini e sulle miserie e le difficoltà della vita quotidiana, senza tralasciarne i lati tragici e comici, talvolta farseschi. Dopo un po’ mi sono tuttavia reso conto che non erano solo le storie individuali a orientare il mio racconto, ma il mio racconto a orientare le storie individuali. Riteniamo di conoscere il nostro passato, di regola è ciò che conosciamo meglio. E invece è come andare verso l’ignoto, e ci sorprendiamo quando vengono a galla distorsioni fra ciò che è stato e il ricordo che se ne ha. In fondo a questo mi è servito il bagno nella scrittura.
Riduttivo quindi parlare di un romanzo, al suo interno vi è tracciata un’epoca allo specchio, azioni identitarie e fenomeni collettivi, trasformazioni societarie, nuove e vecchie ideologie a confronto
Certo, come già anticipato, ma non si pensi che Paese di guadi assomigli a un trattato sociologico. Al contrario è un libro d’invenzione, intesa quale trasposizione di un’esperienza compiuta in determinato anno e in un certo ambiente fisico, sociale, umano. Sul piano testuale non troverete destrutturazioni e ibridazioni (della forma romanzo), niente sperimentalismi linguistici. L’ho scritto come sono capace, imbevuto di classici, prevalentemente italiani, ma anche stranieri tradotti.
Arriviamo quindi alla decisione di riprendere in mano le redini dell’opera. Come è andata?
I 19 quaderni manoscritti sono rimasti nel cassetto per oltre venti anni. Li ho riaperti da fresco pensionato, nel 2014. Per mesi ho dedicato qualche ora a rileggerlo e correggerlo. Nell’autunno del 2016 ho completato il mio editing domestico. Non ho mai pensato di proporre il manoscritto a un editore: troppo voluminoso (dalle 1000 alle 1200 pagine, a seconda delle dimensioni del carattere) e dubitavo che potesse avere “dignità di stampa”.
Tuttavia volevo celebrare il pensionamento regalandomi Paese di guadi in forma di libro, per regalarlo a mia volta a qualche amico e a qualche parente. All’epoca, da oltre un ventennio avevo rescisso ogni legame con l’ambiente letterario, non conoscevo le nuove realtà editoriali e per caso mi sono imbattuto nelle Edizioni Nuova Prhomos di Città di Castello che mi hanno aiutato nell’impaginazione e presentato un buon “prodotto” per qualità e prezzo.
Ho scelto l’opzione “servizi editoriali e stampa on demand” per risparmiare l’iva. E ho anche accettato il consiglio di fissare un prezzo per volume, ma pretendendo che non superasse i costi di stampa. Paese di guadi è nato come strenna, non come mezzo di lucro.
E dopo il regalo che si è meritatamente concesso giungono le gratifiche da parte dei lettori
Dopo due presentazioni del libro (San Vito al Tagliamento e Jesolo-Cavallino) pensavo fosse finita lì, invece ho assistito a una lenta ma costante domanda di copie, vuoi per effetto del passaparola, vuoi perché è stato citato da altri (Arrigo Buccaro, La Grande Guerra a San vito al Tagliamento e nella storia di una famiglia Fabris, Tip. Menini, San Vito al T., 2018, pag. 308).
Paese di guadi, mi si perdoni la vanità, ha avuto estimatori anche al di fuori della cerchia di amici, parenti e conoscenti friulani. Ne cito uno solo per brevità: “Mi hai fatto entrare e vivere in un mondo che non conoscevo. E ho pensato che non è solo il presente a chiedere qualcosa al passato, talvolta è il passato che interroga il presente sotto forma di ciò che siamo diventati.” Una piacevole sorpresa anche gli ordini dalla Francia e dal Canada e così è stata necessaria una terza ristampa in due volumi al posto del precedente volume unico.
Ci sono state delle modifiche o in qualche maniera il testo ha subito delle rielaborazioni dovute alla maturità creativa o legate a esigenze storico contemporanee?
Sì e no. Mi spiego. Ho scritto il romanzo d’istinto, senza un disegno preciso, col cuore. Era il cuore di un trentenne o poco più, un cuore ancora giovane, non invecchiato, stanco e disilluso come il cuore del settantenne che sono oggi. Certo avrei potuto eliminare certi passaggi che ora mi sembrano frutto di slanci giovanilistici, avrei potuto tagliare qualche “ingenuità” nei dialoghi, certi brani scolasticamente letterari. A riscriverlo, però, avrei taroccato il me stesso che ero allora, tutto sommato ancora fiducioso nel genere umano. Quindi ho deciso di lascialo come è nato, mi sono limitato a limare lo stile, a ritoccare il racconto qua e là più nella forma che nella sostanza. Ho eliminato qualche svista e i refusi di cui mi sono accorto, ma è probabile che qualcuno ne sia rimasto, sono il cancro inestirpabile dei libri. Questa nuova edizione, oltre che corretta, è anche integrata: vi ho aggiunto il capitolo (circa 60 pagine) che dà il sottotitolo al primo volume “La scorza delle pietre”. “La traccia del magredo” è il sottotitolo del secondo.
Ho preteso che venisse stampigliato in copertina il prezzo di costo dei due volumi indivisibili: 25 euro complessivi per un totale di 1.194 pagine.
Non posso che augurarle che la sua creatura letteraria, così a lungo meditata, continui a darle le gioie che merita. Io intanto con la lentezza che mi contraddistingue (da lettrice-forte sono passata a lettrice-lumaca, visti i tanti impegni a carattere culturale) ho appena terminato Il bosco di Marx del 2021. Che dirle? Non fermi mai la penna, uno scrittore non nasce ogni giorno.