Dopo una gestazione di 616 giorni e aver studiato 491 testi, esaminato 52 documenti/atti e visionato 7 docu-film, è nato il mio ultimo saggio a stampa: La banalità del bene. Dalla pena capitale agli stermini: la morte come progetto politico, Tralerighe libri (Lucca).
(Renzo Paternoster)
C’è un filo logico che collega la pena capitale a uno sterminio: entrambi sono una decretazione di morte inclusa in una volontà politica: la prima individuale, la seconda in massa.
Per spiegare la morte come progetto politico l’autore ha risposto con un approccio multidisciplinare a delle semplici domande: cos’è? Perché? Chi la fa? A chi? Con chi? Dove? Quando? In quale contesto? Con quali conseguenze?
Prendendo poi le mosse dal costrutto della «Banalità del male» di Arendt, l’autore ha elaborato un nuovo punto di vista sugli esecutori, che proprio banali non sono. Non si è trattato di ribaltare completamente il pensiero di Hannah Arendt, ma di aggiungere un’aggravante ai loro comportamenti. Per questo l’autore preferisce utilizzare l’espressione “banalità del bene”. La banalità del male presuppone un vuoto cognitivo, di giudizio; mentre al contrario la banalità del bene è un pieno di nuove norme morali, di nuovi giudizi, di premeditazione e di passione. In questo contesto è un bene che diventa banale, perché instaura una precisa grammatica di potere che decide chi deve vivere e chi deve morire. Un potere che conduce l’Essere all’essere, insomma solo a un principio biologico della vita. Non importa se il programma di salvezza degli esecutori della morte prevede la dannazione di una parte dell’Umanità.
“Ventinove anni fa in Ruanda si è consumato il peggior democidio della storia in rapporto quantità/tempo. Dal 6 aprile a luglio del 1994 in soli centoquattro giorni sono state massacrate, molto spesso con machetes, pressappoco un milione di persone, approssimativamente il 77% della popolazione di etnia tutsi. Lo sterminio che si è compiuto in Ruanda nel 1994 è l’esito più rappresentativo dei guasti prodotti dalle politiche coloniali e della continua ingerenza dell’Occidente anche nel postcolonialismo. “Iyo umenya nawe ukimenya ntuba waransyishe” (Se tu ti fossi conosciuto, se tu mi avessi conosciuto, non mi avresti ucciso), è l’urlo assordante in lingua kinyarwanda che si ritrova scritto su un drappo viola presso l’ex chiesa di Nyamata, nella provincia di Kibungo, luogo in cui, tra l’11 e il 16 aprile, sono uccise circa diecimila persone, il preludio della mattanza contro l’Umanità.
(Tratto da La banalità del bene )
Renzo Paternoster è nato il 15 maggio 1965 a Gravina in Puglia (Bari), dove risiede. È nel comitato scientifico del Centro Studi di Storia Contemporanea “Carlo Gabrielli Rosi” (Lucca) e di Filosofia e Politica. Rivista di studi filosofici, politici e sociali (Roma); nella redazione di Storia in Network (Milano) e di AlGraMà. Coltivatori di menti (Altamura – BA). Collabora con riviste scientifiche e di divulgazione. Ha ricevuto numerosi premi per le sue pubblicazioni. Tra i suoi lavori a stampa: Guerrocrazia. Storia e cultura della politica armata (Roma, 2014), La politica del Terrore. Il Terrorismo: storia, concetti, metodi (Roma, 2015). Con Tralerighe ha pubblicato La politica del male. Il nemico e le categorie politiche della violenza (2019), La Politica dell’esclusione. Deportazione e campi di concentramento (2020) e Il vizio dello stupro. L’uso politico delle violenze sulle donne (2021).