Le lingue esprimono nella loro grammatica o morfologia e sintassi, nonché nell’organizzazione del lessico e in primis nella fonetica, nell’insieme dei suoni, intonazioni, ritmi e preferenze per determinati fonemi piuttosto che per altri, la personalità dei popoli, degli individui parlanti le varie lingue madri, nelle quali consiste la prima programmazione am-bientale che il cervello impara a partire dalla nascita dell’individuo e anche già nel tempo fetale secondo i suoni – lasciando qui stare ogni ulteriore influsso prenatale. La base linguistica della personalità si intreccia con genetica e ambiente della prima formazione ed è questo complesso insieme di componenti interagenti reciprocamente quanto forma e differenzia l’ossatura dell’identità logica e psicologica dei popoli – eccezioni ci possono essere nell’eventuale cambio di lingua madre se questo avviene nell’infanzia e primissima fanciullezza e all’interno di condizioni particolari che in questo studio non si trattano.
Le lingue madri, di cui è il discorso, costituiscono, sul piano culturale, il più grande magazzino per la più antica memoria preistorica e storica dell’umanità come usi e costumi pratici e mentali, comportamenti, visioni del mondo, ossia come memoria dei modi di pensare, affrontare e capire l’esperienza, qualsiasi esperienza, ossia la vita in tutti i dettagli possibili comprensiva del dettaglio della morte e dei miti ad essa riferiti. Un magazzino di spazialità dinamiche (Mascialino 1997 e segg.) in cui i Primati, l’Ordine delle Scimmie cui appartiene l’uomo, già da epoche prive di parola come sono conosciute ora e anche altre forme animali evoluzionisticamente precedenti ai Primati hanno comunque lasciato il loro segno quali esperienze della vita anteriori all’espressione linguistica, ossia quali radici profonde e inconsce del successivo linguaggio, indelebilmente presenti e, per il possibile, identificabili. Per chiarire: radici memorizzate nella vita di animali non parlanti e divenute inconsce nel tempo, soprattutto dei primati antropomorfi quali parenti a noi più vicini, ma anche di animali a noi più lontani quali tra gli altri i rettili il cui cervello è vivo e vegeto nel nostro cranio con i programmi arcaici appunto rettiliani, senza parola, ma indispensabili alla nostra sopravvivenza, ossia senza i quali non potremmo esistere o cesseremmo di esistere immediatamente, ciò per non retrocedere oltre nell’evoluzione delle varie forme di vita fino a giungere all’inorganico, al non vivo, alla più antica memoria degli elementi chimici senza vita codificati nelle nostre cellule, senza la quale memoria pure non ci sarebbe stata né potrebbe continuare a esserci la vita. In altri termini, le lingue comunque, secondo la direttrice evoluzionistica, mostrano di avere una memoria conscia e inconscia della vita sul piano culturale, a grandissime linee: appunto storica e, in gran parte divenuta inconscia, preistorica, arcaica.
Dopo la premessa di ordine generale di cui sopra relativa, molto a grandi linee, a una delle prospettive rilevanti in cui si pone la Rubrica Psicologia e logica dei popoli, veniamo per una esemplificazione a una breve comparazione tra le strutture dell’italiano e del tedesco, aperte e chiuse rispettivamente, in breve rimando a una prospettiva – una sola tra le numerose possibili – sull’antica origine dei linguaggi.
La lingua tedesca ha conservato, come ormai unica in tutte le lingue germaniche, tranne sparse memorie rimaste di rado qui e là in alcune di queste lingue, la struttura più antica, quella che pone il verbo in fondo alla frase dopo tutti gli eventuali complementi, anche nella frase principale per quanto concerne il participio passato, l’infinito nonché eventualmente particelle verbali cosiddette separabili. Tale tipo di costruzione chiusa è una caratteristica che fa del tedesco una lingua alquanto particolare per aspetti strutturali rispetto ad altre lingue presenti nel mondo che hanno da tempo anticipato i verbi agli inizi delle frasi principali e secondarie, costruzione SVO, ossia Soggetto, Verbo, Oggetto mentre il tedesco mantiene appunto una struttura con i verbi in fondo o SOV, Soggetto, Oggetto, Verbo o parti verbali.
Qualcosa di simile, in sedicesimo, si trova ancora qui e là nei dialetti o usi linguistici del Meridione: la più stretta vicinanza al latino, lingua facente capo alla famiglia indoeuropea, ha fatto conservare la costruzione SOV, non frequente, ma utilizzata quasi come vezzo ogni tanto, per fare un esempio noto a tutti, tra l’altro, dalla serie televisiva siciliana nelle telefonate del commissario: Montalbano sono in luogo di Sono Montalbano come si direbbe assolutamente nel Nord Italia.
Nel sopra citato Indoeuropeo i verbi stanno sempre all’ultimo posto, sia nelle principali che nelle secondarie, ossia chiudono le frasi. Nello studio di Evelyn Frey (1994) viene data affidabilità, in particolare tra varie teorie a disposizione, a una teoria di linguistica tra le più accreditate, secondo la quale la motivazione dell’anticipazione dei verbi dall’ultimo al secondo posto nelle frasi principali e secondarie in generale risiederebbe nei mutamenti dell’accentazione nella frase. In altri termini: variazioni di accento nella sintassi delle lingue avrebbero anticipato il verbo finito della principale oltre che della secondaria dall’ultimo posto della frase al secondo posto dopo il soggetto, questo tranne piccole ininfluenti varianti.
Certo, le – complicatissime – variazioni di accento nel periodare sono evidentemente un’oggettiva motivazione rilevante del citato spostamento. Aggiungerei un’osservazione atta a dare ragione della motivazione logica e psicologica dello spostamento di accenti, della quale potrebbe stare a monte. Bisognerebbe di fatto sapere come mai accada uno spostamento di accenti, ciò che non è chiarito sufficientemente nella teoria in questione o in altre affini. Sappiamo soprattutto dalla riflessione logica che le parole articolate dalle arcaiche scimmie, che iniziavano a parlare, dovevano essere relative a oggetti, ossia erano nomi o sostantivi accompagnati da indicazioni con la mano verso l’oggetto rozzamente espresso con un suono o insieme di suoni quali anticipazioni di parole. Dopo tempi lunghissimi difficili da localizzare cronologicamente – le ipotesi al proposito sono innumerevoli – la semplice accumulazione di nomi non poteva più bastare nel progresso per così dire tecnologico della società. A questo punto, da ultimo nel lentissimo prosieguo della serie semantica, compare il verbo che indica un concetto astratto, non un oggetto, ossia l’azione necessaria a una comunicazione più esatta e avanzata, più agevolmente e rapidamente comprensibile che nella vecchia abitudine di cui testé un riferimento.
Quanto, dopo le premesse, alla comparazione dell’italiano con il tedesco, balza all’occhio come l’italiano anticipi i verbi, non sempre al secondo posto, nei primi posti delle frasi in una sintassi o struttura del periodare da definirsi aperta, estensibile per così dire in un’iperbole: all’infinito. Per chiarire: se un parlante l’italiano dimentica di esprimere un complemento o l’altro appartenente alla specificazione o precisazione relativa a una frase retta da un determinato verbo, può aggiungerlo anche in frasi diverse quando gli venga in mente, meno precisamente quanto a logica, in quanto la struttura aperta lo consente agevolmente, liberamente. Al contrario nel tedesco i verbi chiudono le secondarie stando tutti all’ultimo posto e, nella frase principale – a parte il verbo coniugato a modo finito che sta ferreamente al secondo posto –, le ulteriori parti del costrutto verbale come le particelle separabili o i participi passati e gli infiniti eventuali stanno comunque alla fine della frase chiudendola a loro volta così che non è possibile dimenticare alcunché di pertinente a un determinato verbo e quindi a una determinata frase e aggiungerlo liberamente altrove dove gli pertiene di stare – salvo a sbagliare piuttosto crassamente la grammatica. A livello logico deriva da ciò che l’organizzazione dell’eloquio nella lingua tedesca raggiunga concatenazioni concettuali di tutto rilievo.
In altri termini: un tedesco non può infrangere le regole fisse della costruzione della frase nella quale per altro non può mettere i complementi dove voglia, ma dove deve esprimerli secondo uno schema stabilito e con poche eccezioni anche per la loro successione, in un ingabbiamento che depone per una enorme precisione logico-tecnica e per una scarsa disponibilità alla trasgressione delle regole, di quanto programmato, questo in generale. Nella lingua italiana la struttura aperta e intrecciata di frase dentro frase come già in latino suo stadio antico – ciò che in tedesco è possibile solo con le incidentali o le relative, tuttavia ove non sia possibile collocarle dopo la fine di altre frasi – esprime senz’altro una minore accuratezza sul piano logico, ma consente una molto maggiore dose di improvvisazioni, di intuizioni e concetti che possono venire in mente in secondi o altri momenti più agevolmente dato il tipo citato di costruzione aperta. Così la struttura chiusa e la struttura aperta corrispondono, per parte loro, a personalità diametralmente opposte nei due popoli: da un lato la precisione logica e la capacità organizzativa fino alla più ossessiva pedanteria, dall’altra la libera intuizione a spese dell’attenzione alla precisione logica e della capacità organizzativa, per menzionare solo caratteristiche molto generali logiche e psicologiche corrispondenti rispettivamente alle due strutture – psicologicamente risulta più tranquillamente affrontabile la presenza della struttura aperta dell’italiano, mentre la struttura chiusa del tedesco improntata alla più rigida gabbia logica non lascia scampo alla libertà espressiva, ovviamente con gli intuibili pro e contra relativi ai due modi di vedere il mondo.