Fabio Strinati

Nei cinque sensi e nell’alloro

La biografia artistica (e non solo letteraria) di Fabio Strinati, autore che vive immerso nella campagna della provincia maceratese, è lunga e cospicua. Essa – si potrebbe dire – parte da lontano e non è un mero fatto occasionale nella sua vita, un elemento laterale atto al riempimento di tempo, quanto frutto di una continua ricerca sulla parola che deriva da un sondaggio pervasivo della sua interiorità e delle relazioni col contesto ambientale. Così dalla sua Esanatoglia – un borgo con pochi abitanti che, più di altri, conserva ancora quel senso di autenticità e di passato comunitario nel quale s’iscrivono valori e insegnamenti – la sua opera poetica si estende, fluente, proprio come il fiume Esino che da lì nasce per percorrere nel tragitto digradante comune ai fiumi marchigiani “a pettine” un tragitto che lo riconduca all’essenzialità dell’unione con l’infinito delle acque dell’Adriatico.
Fabio Strinati è nato a San Severino Marche (MC) nel 1983, è poeta, scrittore e compositore. In campo letterario ha debuttato nel 2014.

Sue poesie sono state tradotte in romeno, bosniaco, spagnolo, albanese, francese, inglese e catalano. È il direttore della collana poesia per le Edizioni Il Foglio e cura una rubrica poetica dal nome «Retroscena» sulla rivista trimestrale del «Foglio Letterario». Nel 2021 è stato membro di giuria del Premio Letterario “Gandhi d’Italia – Sulle orme di Danilo Dolci”.
Il titolo della nuova opera, Nei cinque sensi e nell’alloro (Edizioni Il Foglio, 2021), rende edotto il lettore sin da subito di questo sguardo di Strinati che va dal particolare al generale, dalla sfumatura aromatica alla vista grandangolare. Si tratta di un’attitudine, la sua, che non fa venire meno quel quid essenziale che nel lettore consente di percepire suggestione, ma di provare anche vicinanza, come a scoprirsi, nelle proprie disamine sul senso della vita, nelle stesse righe da lui prodotte.
Un libro, questo, che si dispiega tra le ferite del tempo e l’osservazione beata del Creato, nato e sviluppato nel luogo ancestrale del Poeta che si localizza nella sua dimensione naturale con echi e tuffi continui tesi a protendere un qualche appello religioso. Per usare le stesse parole dell’Autore, tale mannello di versi è concretizzazione di un sapere intimo e di un desiderio di esternare, dove vicende intime segnate dalla presenza amata della cara nonna (alla quale l’opera è interamente dedicata), si legano a un ambiente confortevole, amico, solidamente presente. Strinati dà voce al sentire intimo che alberga in lui convogliandolo nel canto delle anime andate, facendole interloquire con i dettami impavidi e inarrestabili della vita che, ciclicamente, ritorna, imperversa, segue, così come la primavera che ritorna, fulgente, dopo un tempo di sonno e umidità. Poesia che s’incanala in maniera così fluida in quell’alveo reminiscienziale e mnemonico e di connubio con gli arcani linguismi della natura, “nei luoghi intrisi di memoria, / e nel campo benedetto” (53).

Versi glabri ed esatti, di un’incidenza impareggiabile sui piani elucubrativi dell’uomo contemporaneo che mai vengono meno a quella capacità intrinseca di avvolgimento e coinvolgimento: «Nella rosa e nella margherita, // nell’odore di campagna / e nei prati fioriti / col tocco della primavera: // danzano nell’aria // i cinque sensi adorni di prodigio, / la vita, ch’è dono fertile di Dio» (8).
Gli abitatori di questa natura sono le forme di vita più presenti e ricorrenti della campagna mediterranea con particolare incidenza dell’attività di coltura dell’uomo che nella provincia maceratese è sempre stata una costante, intensificata, negli studi attitudinali sull’identikit del marchigiano, quale sacrificio innato, colloquio con la terra e vera e propria devozione. Strinati ci accompagna per mano in un contesto ricco di vigne, oliveti, mandorli, meli ma l’attenzione va anche verso espressioni arboricole come gli abeti rossi e floreali come le margherite, le mimose; tutto consente di sentirsi parte integrante di un habitat naturale e inviolato, tra fiori, grappoli, ciuffi d’erba, presenze alate (dalle farfalle alle aquile) in una «natura suprema e formidabile» (33). Così, la vegetazione selvatica, quella aromatica e quella della semina che segue il suo ciclo di maturazione e mietitura, regolano anche la vita dell’uomo. La possanza dell’alloro – richiamato sin dal titolo – è evidente e assai significativa e non può non far pensare alla celebre “Invocazione dell’alloro” di Federico García Lorca: «Io, come il barbuto mago delle favole, / conoscevo il linguaggio dei fiori e delle pietre».

Con l’opera di Strinati assistiamo al mito della creazione, riceviamo gli influssi benefici della rinascita, si respira la rivelazione ma si nutre anche la compassione, c’è una presenza costante e salvifica che risiede nel visibile (la natura) e nel non dato a vedere (nel prodigio). La sua poesia si configura davvero come un canto alla vita, ma non disdegna neppure i toni della litania, il conversari intimo della supplica e della lode al creato: in essa vi è adorazione e beatitudine, contemplazione silvestre, purezza d’incanto, meditazione e preghiera che raggiunge, finanche, il fascino meditato della Via Lattea.
«Lodando il Signore / vago sopra questo campo rigoglioso, / ricco di primizie salutari» (22), scrive, e ci rendiamo conto di questa vincente poetica dell’essenza che tende a una purezza di stile che si associa alla levità e ricchezza dei contenuti; il tono spesso gnomico farebbe propendere per una poesia che, pur profondamente religiosa, scantona il dogma per farsi lirica. Versi sapienziali e di raccoglimento, di esaltazione della vita nella semplicità degli accadimenti naturali. Testi immersi nella vegetazione boscosa, rigogliosa e nutriente di una campagna che, se lavorata con giusta mano e con competenza, sa dare in maniera prolifica i suoi più succosi e nutrienti frutti.
Si apprezza della sua lirica questo effluvio di aromi, intesi quali miscele purissime, date dai profumi della natura che si coniugano a una confessione con l’Alterità: «Ho ascoltato la Tua voce / tra gli alti cipressi / e le colline verdeggianti: // ho respirato la Tua storia, // compreso il messaggio / della moltitudine / tra gli alberi da frutto, / i rovi e i gelsomini» (26). Il ricordo della nonna è sempre vivido e fulgente – umana presenza nella forma di traccia – esso si realizza con un incrociarsi di vedute: «il Tuo sguardo buono / che profuma di lavanda, / come nel campo i cedri» (38) in un antro di solitudine e riflessione intima: «la saggezza, / s’annida nell’ascolto e nel silenzio» (35).
In chiusura, quali migliori parole se non quelle del poeta spagnolo citato a colloquio – profondo e nevralgico – con l’alloro, recettore d’ansia, tormento e amore indefesso per l’esistenza del poeta: «O alloro divino, d’anima inaccessibile, / sempre silenzioso, pieno di nobiltà! / […] / O grande sacerdote del sapere antico! / O muto solenne chiuso ai sospiri! / Tutti i tuoi fratelli del bosco mi parlano, / solo tu, severo, disprezzi la mia canzone! // Forse, o maestro del ritmo, mediti / la vanità del triste pianto del poeta. / Forse le tue foglie, macchiate di luna, / perderanno l’illusione della primavera».

Posted

04 Oct 2021

Critica letteraria


Lorenzo Spurio



Foto dal web





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