Dell’opera poetica La Realidad y el Deseo, sulla quale vorrei soffermarmi, esistono varie edizioni. Sotto questo titolo è stata comunemente raccolta la produzione poetica di Luis Cernuda (1902-1963) compresa tra il 1924, ovvero gli albori del suo scrivere, e il 1962, ovvero l’anno prima del suo decesso. Tuttavia la prima edizione, pubblicata dalle Ediciones del Árbol (di Manuel Altolaguirre) di Madrid nel 1936 comprendeva la produzione del periodo 1924-1936 e sarebbero in seguito intervenute varie modifiche – pure sostanziali – se si pensa, ad esempio, che una delle sue maggiori opere che oggi noi conosciamo, Perfil de aire, in quella prima edizione non era dotata di quel titolo ma di un più generico Primeras poesías.
Stando alle cronache dell’epoca, l’opera venne presentata poco prima dello scoppio della guerra civile, in quel drammatico 1936 che di lì a poco avrebbe privato Cernuda e il mondo letterario tutto del genio di Federico García Lorca che proprio in quell’evento era intervenuto.
Nel corso degli anni seguirono numerose edizioni dell’opera (anche in sud America, soprattutto Messico e Cuba) che, via via, integrarono la produzione di Cernuda con le più recenti pubblicazioni sino ad arrivare all’edizione completa del 1963 pubblicata in Messico dall’editore Fondo de Cultura Económica (Tezontle).
La struttura dell’opera è assai composita e segue il tracciato cronologico della vita e dell’esperienza dell’autore (con gli immancabili versi dettati da un’angoscia profonda, intensificata forse dalla situazione di esule in sud America) e si apre con una poesia giovanile del periodo 1924-1935 che contiene i libri Primeras poesías (quello che poi sarebbe divenuto noto come Perfil del aire, opera del 1924, con ventitré testi poetici anticipati, come nella più alta tradizione classica, da una numerazione con cifre romane e privi di titoli) ed Égloga, elegía y oda (1926-1927) a cui seguono le plaquette dal gusto surrealista Un río, un amor (opera del 1929 dove troviamo le appassionate poesie “Quisiera estar solo en el sur” e “Duerme, muchacho”) e la celebre Los placeres prohibidos (1931).
Secondo la critica con quest’ultima opera Cernuda compie il primo vero e proprio outing, la confessione esplicita priva di remore della sua situazione omosessuale. A differenza di Lorca, che condivise con lui e Vicente Aliexandre il medesimo orientamento sessuale, Cernuda, rivelando la mancanza di quell’amante fuggito o che in qualche modo non riesce ad avere, si libera della sua repressione e del castigo che, se non decidesse di eludere, lo appesantirebbe giorno dopo giorno. È consapevole dell’icasticità dell’argomento e dell’ottusità generalizzata di una società malevola e giudicante ma non si esime comunque dal difendere il suo orgoglio, la sua vera natura. È un libro d’amore, di passione e, come ben recita il titolo, di piaceri sebbene siano proibiti. Non dati a conoscere, dopotutto, perché non facilmente recepibili, ma anche perché tali e nutriti nella passione di un privato che, in qualche modo, si intende preservare. Si pensi a una poesia dal verso lungo, che intende raccontare, riflettere, far pensare anche lo sconosciuto lettore della sua opera, come “Si el hombre pudiera decir”, vero atto di difesa della libertà, dei diritti umani, contro una barbarie di censura e di sottomissione che il franchismo avrebbe di lì a poco inaugurato ed eretto quale unica dimensione accettata: Se l’uomo potesse dire quel che ama, / Se l’uomo potesse innalzare il suo amore verso il cielo / Come una nuvola nella luce. / […] / Colui che con la sua lingua, i suoi occhi e le sue mani / Proclama dinanzi agli uomini la verità ignorata, / La verità del suo amore vero. / […]/ Liberamente, con la libertà dell’amore, / L’unica libertà che mi esalta, / L’unica libertà per la quale muoio.
Cernuda parla di una libertà agognata che è quella di tipo umano, interpersonale, sociale, dettata dall’esigenza di rivelarsi per quel che è, uomo attratto e desideroso di altri uomini. L’ardore dei suoi versi nel parlare di libertà fa anche pensare a quella di Rafael Alberti, suo coetaneo, che si fece paladino di un altro tipo di libertà, quella civile, testimoniata dal suo fervente e mai domo impegno politico.
Le opere di maggiore intensità lirica e nelle quali si evidenzia il più alto coinvolgimento e trasporto dell’Autore si trovano con molta probabilità proprio in quest’opera dove il tema del desiderio è preponderante. Nella poesia d’apertura .Diré cómo nacisteis. il poeta si avvicina a un intento, non facile, non traumatico, di abbordare la possibile insorgenza della passione mediante fasci di angoscia e ardore che lo vedono avvinto nell’inesplicabile ricerca genealogica del desiderio:
Allungare la mano/ è trovare una montagna che divide,/ un bosco impenetrabile che nega,/ un mare che ingoia adolescenti ribelli, scrive. Dopo pensieri ricorrenti, introspezioni e scavi nel profondo della sua anima il Poeta è ben risoluto nell’osservare – conclusione che non lo priva di un ulteriore dilemma esistenziale – Ignoravo che il desiderio è una domanda/ la cui risposta non esiste (dalla poesia .No decía palabras.)
Nel periodo successivo l’opera del Nostro risulta aver assimilato in maniera assai importante gli influssi di una certa poesia romantica d’impostazione classica, con attenzione a Bécquer tra tutti ma, per alcuni passaggi luminosi, anche a Espronceda e Larra. Ne fanno parte le opere Donde habite el olvido (con poesie scritte nel periodo 1932-1933 anticipate da una nota confidenziale dove, in chiusura, si legge: “Le seguenti pagine sono il ricordo di una dimenticanza”) e Invocaciones (poesie scritte nel periodo 1934-1935 tra cui A un muchacho andaluz e lo struggente Himno a la tristeza). Il tema dell’olvido (“dimenticanza”, “oblio”) sarà centrale e pervasivo nella sua opera completa a costituire un tarlo ineliminabile della mente: Chi dice che si dimentica? Non c’è oblio./ Guarda attraverso questa parete di gelo/ andarsene questa ombra verso la lontananza/ senza l’aureola radiante del desiderio.
La pienezza poetica dell’Autore (che secondo alcuni si ravviserebbe dopo l’esilio americano) potrebbe vedersi nelle successive opere Las nubes (poesie degli anni 1937-1940 dove troviamo, tra le altre, la celebre A un poeta muerto dedicata a Federico García Lorca dove scrive: La morte si direbbe [essere]/ più viva che la vita/ perché tu ti trovi in essa e la Elegía española II dedicata a Vicente Aleixandre) e soprattutto con Como quien espera el alba (poesie del periodo 1941-1944) nel quale il tema del passaggio fugace del tempo caro a Shakespeare dei Sonetti, si discioglie continuamente nei versi: Tutto quel che è bello ha il suo attimo e passa./ Ha il valore di un eterno godimento del nostro istante./ Io non ti invidio, Dio; lasciami da solo/ con le mie ombre umane che non durano.
La maturità poetica di Cernuda è ravvisabile nelle opere successive che sono il prolungamento di riflessioni interiori che l’hanno sempre accompagnato, resesi più serrate e amare e accompagnate da una disillusione generale. La poetica risulta ispessita da evidenti eredità e influenze di autori da lui ampiamente studiati afferenti all’esistenzialismo europeo quali T.S Eliot e il tedesco Hölderlin (come ha lasciato scritto lesse e s’interessò anche di Leopardi e Kierkegaard). I pensieri sul tempo che fagocita e distrugge (Fosti giovane,/ ma mai lo seppi/ fino ad oggi che l’uccello se ne è fuggito/ dalla tua mano), sull’insaziabile desiderio e l’esigenza (turbolenta, mai rivelata) di una comunione con gli spazi natii si contaminano in queste opere con un sentimento a tratti angustiato e una mente fervida che scantona il convenzionale.
Le opere di questa stagione personale sono Vivir sin estar viviendo (1944-1949), Con las horas contadas (1950-1956) e Desolación de la quimera, con componimenti vergati nel periodo 1956-1962, dove troviamo brani dedicati ad alcuni musicisti come Mozart e ad autori come Dostoevskij e il connazionale Juan Ramon Jiménez, monologhi, finanche testi dedicati alla lontana Spagna (soprattutto il “Díptico español” dedicato a Carlos Otero) che rimembra con una miscela di sensazioni, dalla passione allo scoramento, dal fascino per le sue linee distintive all’insoddisfazione profonda verso i suoi rituali, con tiepido e malcelato orgoglio e ampio sfogo: Sono spagnolo senza voglia/ Che vive come meglio può lontano dalla sua terra/ senza rimpianto né nostalgia./ […]/ Preferisco/ non ritornare in una terra la cui fede, se [è vero che ne] tiene, ha cessato di essere la mia.
Nel 1958 l’autore scrisse un ampio testo-confessione (Historial de un libro) nel quale parlava abbondantemente della genesi della sua opera totale, La realidad y el deseo, di come era nata e l’aveva sviluppata negli anni, dei motivi che l’avevano determinata e che, in seguito, l’avrebbe contraddistinto. Si tratta di un repertorio veloce ma avvincente anche dei suoi più nitidi ricordi, tra gli affetti (il particolare il ricordo della madre morta nel 1928), l’astioso rapporto con la Madrepatria, dei vari spostamenti che lo condussero in varie parti del mondo (tra cui l’importante permanenza in Scozia, a Glasgow, dove lavorò come lettore), sino alle prime affermazioni quale poeta, gli inserimenti dei suoi testi sulle riviste, le prime pubblicazioni di libri, la vicinanza di alcuni coetanei (Lorca, Aleixandre, Altolaguirre) e le critiche di Salinas nel recensire la sua opera. Le ossessioni del tempo e del ricordo che, con l’avanzare dell’età, si fa sempre più esasperato e difficile. L’esilio in Messico. Il tutto è vagliato da notizie con dettagli che ci aiutano ad approfondire il suo percorso, a meglio collocarlo all’interno della macro-storia degli eventi del periodo. Resta una delle migliori “occasioni” per sentire l’Autore parlare direttamente di Poesia: non solo quella frutto del suo genio ispiratore ma, più in generale, della concezione alta e autentica della confessione di questo mirabile mezzo espressivo. La poesia parla in noi/ la stessa lingua che parlarono allora,/ e molto prima che siamo nati,/ La gente nelle quale trova radice la nostra esistenza;/ non è il poeta solamente che qui parla,/ ma anche le bocche mute dei suoi [avi]/ ai quali lui dà la voce e li libera; Vivono e muoiono solo i poeti,/ restituendo in chiare lacrime/ la polverosa acqua salmastra,/ e nell’alta gloria risplendente/ la schiva occhiata del magnate grasso,/ mentre i loro nomi risuonano/ con il vento nelle pietre,/ fra il brusco rumore dei torrenti oscuri,/ Là nei luoghi dove l’uomo/ non ha mai messo piede.
In Historial de un libro ebbe a scrivere “L’arte della poesia richiede a volte il tocco leggero e altre il tocco insistente ma in entrambi i casi il risultato deve confondere la pazienza con la sorpresa”. Nella sua opera ci pare di osservare che il tocco leggero sia stato privilegiato nello scorrere dei versi rispetto all’insistenza. O per lo meno è questo l’effetto suggestivo che il lettore ne può ricavare. Sebbene temi e dilemmi di comune appartenenza siano in parte reiterati nel suo percorso creativo è qui che in maniera più alta e compiuta si riflettono e si compiono con efficacia i suoi pensieri più reconditi e vividi, svelando il tormento e la voglia di amare, principio primo e fine di tanto riflettere e scrivere su una scala del tempo che si consuma.