Giovanna Fileccia

La poesia testuale e sculturata sulle onde del linguaggio del mare

L’anima del mare:
mantra inesauribile;
marea mutevole.
Ventre di vita;
pozzo di sapienza.
Richiamo di morte;
iride di nascita.
Marhanima
poesia che nutre
le arterie del mondo.
(41)


Giovanna Fileccia è l’ideatrice della Poesia Sculturata: opere tridimensionali che crea prendendo ispirazione dalle sue poesie. La sua arte richiama alla resilienza, al rispetto dell’ambiente, al reimpiego dei materiali di scarto e di recupero, nonché al rispetto della Terra


Giovanna Fileccia ha vissuto a Cinisi, nel Palermitano, luogo dove visse e operò lo sfortunato attivista Peppino Impastato (1948-1978) che venne ucciso dalla mafia per la sua attività di denuncia: Pippinu / Impastatu cu lacrimi, rina e sangu / Spicau / Nu ntonsu e piatusu filu d’erba / E doppu / Duricimiladucentuvinticincu jorna / Addivinatu / Comu mari virdi ciurutu / Na caterva», gli dedica la Nostra in Sillabe nel Vento (2012).
La Fileccia ha pubblicato libri di poesia, è una valente artista e ha fondato una nuova espressione artistica che coniuga parola e materia, la Poesia Sculturata. Di questa arte particolarissima che si esprime a partire da un animo fine e da una ricercata eleganza formale e contenutistica, la Nostra ha tenuto, prevalentemente sul territorio della provincia palermitana, una serie di istallazioni e mostre personali, finanche incontri con i ragazzi delle scuole. A tutto ciò non si deve dimenticare la componente critica della Nostra che, nel tempo, ha preso forma e si è manifestata in maniera assai vincente, con la stesura di una serie di recensioni, approfondimenti e analisi articolate a opere, tanto poetiche che narrative, di altri autori. Dunque, un’artista a trecentosessanta gradi, come si suol dire.

Ad avvalorare il suo talento sono stati, di volta in volta, insigni esponenti del mondo culturale e letterario che hanno intravisto in lei i segni distintivi del genio e della ricchezza umana. Alcuni di essi sono presenti sotto forma di commenti incipitari o argomentativi, tesi ad approfondire le sue opere, collocati all’interno dei suoi volumi. Testi che scantonano l’encomiastica becera di tanta critica raffazzonata e amicale d’oggi ma che, con perizia e giustizia, affondano nel nucleo della questione: la capacità della Fileccia di saper trasmettere emozioni e, aggiungerei, quella di farci scoprire meravigliati dinanzi alle sue opere, siano esse plastiche che testuali. Tra questi “crediti” da non sottovalutare rientrano senz’altro la postfazione di Francesca Currieri al suo La Giostra dorata del Ragno che tesse (2015) nella quale possiamo leggere: «Le deliziose metafore e le riflessioni calzanti, ben si associano con le rime poetiche della Fileccia ed invitano i lettori a gioire e a centellinare i momenti felici della propria esistenza. La sensibilità dell’autrice, la misteriosa capacità di apprendere coi sensi, il modificarsi dell’animo, il gioire della vita, anche se la tristezza, a volte, la fa indulgere verso il pessimismo, sono elementi portanti della sua arte poetica» (77) e la nota d’apertura a Marhanima (2017) dal titolo “Il richiamo del grande Blu” vergata dallo scomparso Sebastiano Tusa, Soprintendente del Mare e Assessore alla Cultura della Regione Siciliana.

Alcune delle liriche più incisive e curiose si trovano in Sillabe nel Vento (2012) a partire dalla lirica che apre la raccolta, “Intima platea”, nella quale l’Autrice affronta il tema – importantissimo in ambiente culturale – del pubblico e della capacità dello stesso d’intervenire nel completamento di significato dell’opera e di reale fruizione dei contenuti che l’artista intende trasmettere: Voi, intima platea di visi sconosciuti / lettori consapevoli di sillabe assemblate // […] // Voi, intima platea di menti articolate / critici imponenti (9): il testo poetico è tutto un riferirsi, continuo e mai pedante, alla massa variegata di possibili ricettori di un’opera d’arte come di un’opera poetica: tra menti attente e altre disattente, persone comuni e critici severi, persone silenziose e altre inopportune. Le parole della Fileccia risiedono in una volontà di dire in maniera palese e luminosa e altre volte di evocare e rimandare a possibili messaggi ulteriori, ciò che la metafora, a cui dedica una lirica, compie con l’uso ardito e spesso non a tutti di facile accesso. S’instaura così un legame misterico tra le cose, tra gli avvenimenti, tra i nessi dotati in apparenza di una casualità non diversamente descrivibile.

In questa opera compaiono anche liriche in dialetto siciliano, com’è il caso di “Stidda a tri punta” che con un misto di orgoglio e insoddisfazione ci parla di alcuni caratteri considerati elemento identitario o comunque rappresentativi di una terra dolce di colori e sapori ma spesso aspra di temperamenti: Terra addisiata, china di suli / suli d’argentu ca vasa lu mari / mari di vita ca parra cû cielu / cielu di zuccaru ca fa l’amuri cû ventu / ventu di sciroccu ca carizzìa li muntagni / muntagni svintrati pi li manu di patri gnuranti (13) e la sontuosa “Tramuntu spiranzusu” che, senza reticenza alcuna, ci svela: chista è terra di duluri / di sciroccu ca chiuli li porti / di vucchi sigillati / e palori mali ritti (25).

La poesia che fornisce il titolo a questa raccolta, “Sillabe nel vento”, è senz’altro il punto di diamante della silloge. Qui la poetessa riflette sulla potenza della parola, sulla forza del dire e analizza, nelle pieghe della sua interiorità, i velami che s’aggirano attorno al vocabolo, fonte di espressione e motivo di comunicazione intersoggettiva. La Fileccia affronta il tema poetico, in questo caso, non tanto come contenuto in se stesso ma quale potenziale filone di pensiero, di motivo ontologico, andando a interloquire con una materia intima e imprendibile, assolutamente vaga e impossibile a ogni recinzione: sono le voci dell’anima che si raccolgono attorno a pensieri e divagazioni che la Nostra è come se facesse “a voce alta” permettendo a quell’auscultazione di divenire confessione e, felicemente, per noi tutti che fruiamo il suo testo, reale coinvolgimento. Leggiamo nella strofa conclusiva della lirica: Vorrei scrivere una poesia senza parole / una poesia che nella sua coerenza / sia totalmente sconclusionata / perché ognuno possa prendere ciò che gli serve / per far luce nel caos della sua mente (17). Ed è in effetti veramente stupenda questa possibile definizione di poesia quale spazio altro ricolmo di possibilità e materiali dai quali, personalmente e secondo le proprie esigenze, è possibile ricorrere e attingere in maniera libera e sicura. Poesia quale cambusa di elementi nutrienti ma anche quale arsenale di deposito, di baule dei ricordi, di scatola delle rarità. La Fileccia ricorre a questa poesia con l’intenzione di aderire – forse in maniera indiretta – a quel filone della critica letteraria contemporanea secondo la quale il senso di una poesia, e di un’opera d’arte (si pensi all’arte concettuale), si ricava dal connubio e dalla relazione – non sempre chiara e facile – dei sensi che l’artista ha voluto trasmettere e quelli che il recettore vi ha intravisto, ha creduto di percepire. Ecco, allora, il vero significato della poesia per la Fileccia: non un dogma, non un precetto pedagogico ma un campo di libertà e di condivisione, ben lontano dalla cattedra dalla quale s’impartiscono insegnamenti e ci si distanzia da un pubblico, essa ha più la forma di una panchina all’aria aperta, disponibile al dialogo sano e scambievole di chi vi si siede.

Il libro successivo, La Giostra dorata nel Regno che tesse (2015) si apre con un corposo saggio di Giuseppe Oddo dal titolo Giovanna Fileccia e la poesia sculturata come ricerca e tessitura del destino umano nel quale, con grande acribia e competenza di linguaggio, si rintracciano i motivi, e i felici esiti, del percorso artistico della Nostra, creatrice della Poesia Sculturata, che possiamo definire come vincente genere prodotto su una mistura di codici ed espressioni, di grande resa ed efficacia sullo spettatore.

Di questa opera il lettore non potrà fare a meno di vedere alcuni elementi paratestuali che si sposano al testo delle liriche, enfatizzandone contenuti o elaborandoli anche in chiave visiva com’è il caso di alcune foto in bianco e nero di alcune sue opere. Non meno importante è la disposizione del testo sulla pagina; in alcuni casi troviamo strofe allineate a destra, altre a sinistra e questa visualizzazione particolare “a denti” (o più precisamente “ad onda”) delle liriche in effetti consegna al testo, oltre che piacevolezza nel corso della lettura, anche una sua sinuosità e dinamismo. I vari rientri di alcuni versi, l’allineamento non sempre uniforme e l’uso del corsivo, trasmettono un’idea di qualcosa in reale movimento e in continua trasformazione, che prende corpo nel momento in cui noi lo leggiamo e sembra quasi di poter intravedere, con un procedimento automatico della retina che conduce l’uomo a comparazioni pareidolitiche, di osservare possibili pennuti che prendono il volo. Oltretutto la conformazione tecnicamente anomala del testo e in parte volutamente disorganizzata produce una situazione di stratificazione e di sovrapposizione, nella quale l’occhio umano è interpellato su quale porzione dedicare attenzione in primis.

Ci troviamo, per usare le parole del libro, anche in una sorta di potenziale trama dove è dato al lettore – in virtù delle precisazioni fatte sull’importanza del recettore nella costruzione del significato di un’opera – introdursi e sapersi districare, come in una tela di un ragno dalla quale, se è vero che si può rimanere imbrigliati, d’altro canto c’è (e deve esserci) sempre una via di fuga. Simile sensazione può essere provata immaginandosi nell’utero della terra, in una circostanza di chiusura e profondità apparentemente invalicabile, a cui la Nostra dedica una lirica e la relativa opera scultorea che – lo ricordiamo – come tutte le applicazioni di poesia sculturata – fa uso di materiali di risulta quali conchiglie, pietre, sabbia, vetri in linea con i canoni della poor art.

Curiosa – ma mai così tanto quando si è imparato a conoscere la creatività e l’energia della Nostra – la poesia “Labirinti ideali” dove si legge: Vagando / per sconnesse vie / decisi di / tornare indietro / percorrendo quel luogo / di dedali intricati (70); alla poesia è annessa l’immagine della relativa opera prodotta dalla Nostra. Entrambe evidenziano il concetto, chiarito dalla Fileccia al termine della pagina, secondo il quale «Ognuno di noi persegue mete diverse: mondi incogniti che attraverso i pensieri, le emozioni, le mani e le azioni, ci portano in luoghi da scoprire e in spazi da conquistare» (70).

Alcune note, infine, su Marhanima, l’opera poetica più recente, probabilmente la più eversiva e geniale, ma anche quella più promettente e avveniristica, quella che – da dentro – più coinvolge e prende il lettore, soprattutto quello che ha nel tempo, nell’infanzia o nella quotidianità, stabilito in un rapporto di preferenza e di richiamo continuo con la dimensione equorea del mare. Non posso non riportare le stupende parole della dedica della poetessa su questa opera, che considero esse stesse frammenti di questo cantico dell’acqua: La superficie riflette / l’azzurro mi trova, / ci trova.

Quest’opera può essere concepita come una sorta di poemetto dal momento che il testo segue in maniera fluente senza particolari cesure, titoli, richiami, citazioni o altre pause che possano servire da possibile tregua o silenzio tra una parte e l’altra. A intervallare le varie porzioni sono le opere scultoree eseguite dalla Nostra tra cui, per il loro grande impatto, senz’altro meritano di essere richiamate: “I sensi dell’amore” (75 x 64 x 25, materiali: cartone, sabbia, conchiglie; opera del 2013); “Fiore di mare” (44 x 57 x 50, materiali: sabbia, legno, rame; opera del 2015); “Sillabe nel vento – la montagna del caos e dell’equilibro” (39 x 44 x 40, materiali: rete, legno, sabbia, alluminio, Swarovski, opera del 2014), “Sicilia grida” (57 x 41 x 21, materiali: tessuto, sabbia, elementi del mare; opera del 2015) e “Imperia” (48 x 82 x 42, materiali: sfera di vetro, stoffa, alluminio; opera del 2013).

In questo «scrigno ricolmo di emozioni» di cui parla l’architetto Alessandra De Caro nell’introduzione, tutto ci parla della forza magmatica del mare, della sua energia in tumulto ma anche della serafica calma e lietezza dell’ambiente marino che rappresenta la vera fonte dalla quale la Fileccia trae materiali ed elementi per la composizione delle sue opere. Leggiamo nella prima parte: L’acqua del mare:/ testimone di memorie, / culla del tempo che / porta al mio orecchio / il battito del mondo. / Il respiro dell’onda / narra la danza tra / gli uomini e il mare / mentre il cielo, dal / templum infinitum, osserva / il marinaio (13).

La Fileccia permette all’acqua del mare d’insinuarsi nelle sue parole, nell’incavo ristrettissimo tra i caratteri che le compongono, di lasciarsi bagnare e filtrare il liquido, di seccarsi e, ancora, in base ai moti e ai flussi delle maree, di tornare a sommergersi più o meno fragorosamente. I versi sono profondamente imbevuti di acqua che anche estrarli, in minute quantità, per citarli, rischiamo di bagnarci dal momento che scolano dappertutto. Parimenti le opere scultoree che da esse prendono forma, per la prevalente presenza della sabbia, farebbero pensare a contesti di secchezza e aridità, addirittura di spossatezza e di difficoltà di respiro per l’uomo. D’altra parte il mare – e l’acqua, motivo primo – è presente, in negativo, per sottrazione. La sabbia dorata e secca che campeggia sulle opere non è che il risultato di un contesto in cui il mare è presente, sì, ma si è momentaneamente ritratto seguendo le ciclicità delle basse maree notturne. Ecco, guardando queste opere di Poesia Sculturata della Fileccia dove c’è la sabbia, e che dunque vogliono riferirsi al contesto di mare alla quale lei appartiene, dovremmo guardarle per come sono – certo – ma dovremmo anche figurarle per come potrebbero / dovrebbero essere, ovvero con una sabbia molto più scura e densa, non più dorata ma marrone scura, pesante e vischiosa perché intrisa d’acqua. Ed è in fondo come realmente sono perché nel momento in cui le vediamo sono rappresentate nell’apice della loro altra ciclicità di bassa marea che, esistendo, prevede anche la sua controparte in cui vengono sommerse, annullate, rese invisibili all’occhio umano.

Qualche altro estratto (bagnato) da questa opera magna della Fileccia: Acque blu cobalto, / si riversano generose, / su golfi sabbiosi atteggiati a sorrisi (16); Verdeggianti alghe danzano e / dagli abissi emergono / bramose di lasciare il buio. / E nuotano a passi di mantra / per raggiungere i raggi del sole (18); Il linguaggio del mare / suono cullante che, a sprazzi, / si rende eloquente all’intrepido / […] / E l’ode il poeta cede alle onde: / le sillabe si scompongono / eppure la poesia non si infrange (22) e, per concludere, i versi più belli in cui la poetessa non solo trova il suo spirito rinfrancato a contatto con le acque, ma è come se realmente rinascesse e, con questo atto, si compisse il mistero che albeggia dalle acque amniotiche: Il vibrare del mare / canto che mi travolge / e mi risucchia / dentro un utero colmo di vita e / rinasco Marhanima partorita dal mare / che anima sogni e desideri (37).

Posted

04 Dec 2021

Critica letteraria


Lorenzo Spurio



Foto dal web





Programmi in tv oggi
guarda tutti i programmi tv suprogrammi-tv.eu
Ascolta la radio
Rassegna stampa