Dei medici fasanesi di epoche antecedenti tanto si è detto e scritto. Le mie riflessioni riguardano il medico di tempi contrassegnati da un basso livello d’istruzione dei cittadini. il medico di base ha sempre avuto una comunicazione interpersonale con pazienti provenienti dai più disparati strati sociali per cui, una volta, era facile che per alleggerirsi il compito e poter emettere una diagnosi interloquisse con i più sprovveduti ricorrendo al dialetto.
Mi risuona ancora nelle orecchie il parlato dialettale frammisto all’italiano dello scomparso dottor Luigi Albano, medico fasanese che dopo aver seguito per anni un nucleo familiare si rivolgeva in modo spiccio e diretto a qualche sua paziente: “Pëcciulé a certe cause a sté attinte” (Ragazza, a determinate questioni devi prestare attenzione). Il succitato medico si prestava anche a far nascere i bambini in casa. Successe che di fronte ad una neonata con il filo sublinguale non del tutto staccato, con la puerpera che temeva per sua figlia, potendo avere in crescita difficoltà a parlare, il Dottor Albano così si espresse: “Nan te pegghiè vëlagne, ada vedè ca chesse peccenne t’avà stunè! ” (Non preoccuparti, vedrai che questa bimba ti stonerà di grida). Previsione che divenne presto realtà.
Il ruolo del medico di base andava ben oltre l’esercizio della professione. Egli era un vero confidente di famiglia. Il medico metteva il paziente a suo agio e lo invitava ad esprimersi nei termini a lui più congeniali spiegando anche con parole dialettali il proprio malanno con i sintomi che accusava. Iniziando dalla parte più esterna del corpo umano i più petulanti irritavano il medico anche per mostrare la tipica bolla d’aria che si crea a volte sulla pelle. “Dottà, iäve do dì ca m’assoute chessa pampanedde, ce pozze fè? (Dottore da due giorni mi è uscita questa bolla. Che posso fare?) Per non parlare poi du frugne (del foruncolo) localizzato un po' ovunque.
Un fenomeno che allarmava era un mal di gola che non passava. La domanda classica al medico, mentre armato di cucchiaio visitava, era “Dottore, ancure so’ i donzille? ” (Dottore caso mai sono le tonsille!)
Dall’album della mia memoria sto ripescando intanto un’immagine che a distanza di molti anni suscita in me della sana ilarità. Anni settanta dello scorso secolo. La scrivente è nell’ambulatorio del suo medico, Angelo Petrella, altra figura cardine della sanità locale di cui ci occuperemo in separata sede. Ci va, ancora studentessa dell’Isef, accompagnata da un suo amico di studi piuttosto altletico, alto un metro e ottanta. Appena glielo presenta Il dott. Petrella, rivolto a lei, così esclama: “Ce sorte de nannurche m’annütte! ” (Che ragazzone mi hai portato!) Ciò a confermare l’abitudine diffusa di ricorrere al linguaggio autoctono. La stessa frase esclamata in italiano non avrebbe sortito lo stesso effetto. Anche il Dottor Valentino Natoli, dentista, non disdegnava l’uso del dialetto con i suoi pazienti più sprovveduti ai quali intanto che curava la carie così giustificava le numerose sedute “Chesse amé curé nu stuzze a volte” (Questa carie la dobbiamo curare un po' per volta).
Proseguendo lungo l’iter medico-linguistico-dialettale, non posso fare a meno di citare le donne in preda ai disturbi della menopausa: tra i vambäte, a nervatoure, i sëdoure, i chiangioute senza moteive, a’ pëcondrìl’ (le vampate di calore, i nervi, il sudore, il pianto senza motivo, l’ipocondria), l’elenco era lungo. Quando ancora in farmacia non c’erano le terapie ormonali sostitutive e le donne erano poco inclini a prendere ansiolitici, temendone la dipendenza, al medico non restava che consigliare “Fatte spisse na cambomille; aqquanne te vine da chiange, chiange, spuiscëte!” (Fatti spesso la camomilla e quando hai bisogno piangi, sfogati!)
Ed ora tengo a riportare un ultimo aneddoto realmente accaduto. Erano gli anni cinquanta. Un bambino abitava nelle cosiddette “sträde du pallaume”.
Erano le traverse di via Forcella che sbucavano in Via Mignozzi, zona caratterizzata dal degrado sociale e culturale, dove spesso le donne erano incinta e quindi con il pallone. Se la memoria non m’inganna tale zona era denominata anche “u quartjire di ’bbrée ”. In regime fascista imperante anche a Fasano, per via delle leggi razziali, le persone di basso rango venivano probabilmente considerate alla stregua degli Ebrei, sinonimo di persone spregevoli, da evitare.
Ma torniamo al piccolo protagonista malato. Presentava il ventre molto gonfio e si lagnava per i dolori intestinali. Dall’aspetto pallido ed emaciato pareva quasi giunto in fin di vita. Chiamato urgentemente il medico, ordinò al padre di correre in farmacia a comprare un sondino da utilizzare per via anale. Ma ahimè!, il padre agitato: “N’agge capeite bune, dottà, ce jì ch’aggià ‘ccatté?” (Non ho capito bene, dottore, cos’è che devo comprare?». E lui “Benedetto uomo, nu tübbe pëccinne da mette jnte u culette du peccinne, dinge accussì a Don Peppine da farmacì” (Benedetto uomo, un tubicino piccolo da mettere nel culetto del bambino, tu dì così a Don Peppino della farmacia). Il medico provvide così a far fuoruscire tutta l’aria che si era accumulata nell’intestino per cui Il bambino cominciò a riprendersi. Rinfrancata e incredula, la mamma tra le lacrime non finiva di ringraziarlo. Dopo di che accompagnò il dottore allu vaceile (alla bacinella smaltata con l’acqua per lavarsi le mani), tendendogli l’asciugamano bianco ricamato che non era stato mai utilizzato.
Che dire a conclusione! Il dialetto era il vero passepartout del medico di famiglia se voleva entrare in piena sintonia con certi pazienti. Del resto, se i malati non gli riferivano bene i diversi sintomi con il linguaggio gergale, rischiava di non azzeccare né la diagnosi né la terapia. Ma, dopo quanto è stato narrato, si può pensare che il vero “paziente” fosse lui!