La baby farm (che è stata ed è al centro ancora di discussioni anche ad alto livello) è una persona di sesso femminile che accetta che le venga intromesso seme maschile in modo artificiale, dal coniuge di una sterile. Pertanto il compito della baby farm non è che “incubare”, sino al parto, il figlio poi per restituirlo alla coppia che lo ha commissionato. Il fenomeno della baby farm è complesso.
Guardiamo subito dove attecchisce: negli U.S.A., guarda caso, hanno reso fatua, ogni cosa, commercializzandola all’estremo.
Anche il “caro estinto” viene portato in imprese “funebri” (in ogni senso) affinché venga “restaurato” (capelli rinfoltiti, protesi dentarie ed altri macabri riti). In un “cosmo” che non conosce più che cosa sia l’uomo e la cosa, non ci si dovrebbe più tanto scandalizzare, di queste incubatrici a pagamento.
È vero, l’elemento economico (da non escludere) non è tutto: in fondo una gravidanza costringe a certe imposizioni e questo non obbedisce ai canoni della “eterna dinamicità, della bellezza, della moda”. Ma in una società massificata e massificante, piena d’estreme contraddizioni, è facile “manipolare” subdolamente anche la più impalpabile “spiritualità”.
Da una parte, una coppia che per rimaner legata ha bisogno dei figli e quindi ordina “il prodotto d’unione” (figlio-cosa), dall’altra, una persona estremamente frustrata che accetta.
Accetta per un nobile ideale (ironicamente): far del bene al prossimo e nel contempo esser retribuita. Dare felicità a pagamento senza neppure prostituirsi ma esser – in fondo – anche ben vista.
D’accordo: ci può esser come giustificante il desiderio materno: ma questo desiderio come si soddisferebbe se la partoriente deve per contratto, cedere il figlio?
È vero: i genitori sociali possono mostrarsi migliori dei naturali (ma non è questo il caso: questo succede nell’adozione).
In realtà da parte della coppia c’è un egoismo manifesto: il seme è – in nuce – del padre, non si corre il “rischio” (come nell’adozione) di “prenderne uno a caso”, “di chi?”
Se la baby farm in realtà può credere – in buona fede – di far una buona azione (tra le varie ipotesi, perché escludere questa ipotesi?) il discorso viene ad innestare in un ben preciso contesto (come abbiamo visto) ove non esiste più differenza tra uomo e cosa. La differenza tra l’uomo e la cosa è la coscienza di essere, d’agire ma l’uomo così depauperizzato, ridotto a semplice oggettualità, è veramente passibile di una sentenza morale? La sentenza, il giudizio morale riguarda l’uomo, non l’oggetto.
La baby farm si riduce a semplice strumento ed una donna rifiuta di esserlo. Non è un figlio che fa la donna: è dignitosa con prole o senza. Sta a lei a decidere se desidera essere madre o meno, nella impossibilità, volendo un figlio, può adottarlo. Chi se la sente di dare un giudizio su uno strumento se è morale o meno? Il processo va fatto semmai ad un sistema mercantilistico, alla così “decantata libertà”. Libertà di non essere: su questo sono d’accordo.
Poi c’è chi si lamenta perché si parla della morte di Dio e fa dell’ironia a buon mercato: non ha capito nulla. La morte di Dio significa, anche i muri l’han capito, morte dell’uomo.
E “l’uomo cosa” che cos’ è? Uomo od oggetto?