Nel Settecentenario dantesco, pur riconoscendo il Fiorentino padre della nostra lingua, oggi non si potrebbe scrivere la grande Commedia umana traslata nei tre regni dell’Aldilà in modo didascalico.
Mi riferisco al complesso e dissonante, se non dissacrante, libro poetico di Maria Teresa Infante, Extrema Ratio.
Nell’opera dantesca vige un ordine medievale: la Natura è creata, assume rispetto ai Greci che non conoscevano la creazione un segno negativo.
In nuce, tutto – uomo e natura – sono figli di Dio e lo devono venerare, seguendo valori cristiani o creduti tali.
Nonostante le sue grandi intuizioni, Dante ci è lontano. È con Baudelaire, Rimbaud, Eliot di The Waste Land (1922) che siamo addentro alla lirica moderna: lirica straziante e desolante, senza consolazione.
Ci sono state, poi, le guerre mondiali, i campi di sterminio dove si viene a dubitare di Dio, della sua onnipotenza, di come abbia permesso nella sua bontà assoluta Auschwitz. La risposta di Hans Jonas, ebreo, è chiara e lampante.
La modernità si è spinta oltre; e non bisogna dimenticare Nietzsche che afferma una grandissima verità nell’aforisma 125 della Gaia Scienza: la morte di Dio a cui non abbiamo ancora saputo rispondere e proporre alternative valide.
È l’epoca del nichilismo e come convivere con esso, con questo ospite inquietante.
Quale ordine? Quello dantesco? Quello Medievale? Oppure quello inquietante dell’oggi?
È in questo panorama – così appena abbozzato – che vedo inserirsi la dissonante prosa e lirica poetica di Maria Teresa Infante: esperienze vissute sulla sua pelle presenti in codesto libro.
Una vera autopsia dell’uomo contemporaneo, scarnificato, senza valori di riferimento, che si muove tra benzodiazepine, masturbazioni mentali, amori e disamori. In parte si riflette appieno la psicologia dell’Autrice ma soprattutto il Chaos che – senza ipocrisia o freni inibitori – la Infante denuncia perché lo vive in prima persona o lo esprime chiaramente. Riprendendo un altro aforisma di Nietzsche in effetti è solo dal Caos che può nascere una stella danzante.
Esistono, in questa silloge, anche poesie con tanto di metro: l’endecasillabo. Tuttavia chi scrive trova il meglio nel suo mettere a nudo la coscienza (vedi, quale esempio, p. 64) o dove l’Autrice, scartando ogni falso pudore e giocando anche sull’accentuazioni e giochi di parole (annegare non nel te bensì nel tè), propone una vera radiografia del contemporaneo che ha smarrito ogni punto di riferimento e naviga senza bussola nel mare magnum del disordine (dal cogito ergo sum al cogito ergo est, riprendendo la abissale profondità di Nietzsche).
È questa – per me – una chiave di lettura fascinosa della ricchezza espressiva dell’Autrice che dà alla sua poesia fuori dai consueti schemi un senso pregnante dell’esistenza umana, di questo esser-ci nel mondo oggi ovvero senza fari di riferimento solidi, tralasciando l’etimo di solido che dice molto.