Carlo Levi con il suo Cristo si è fermato ad Eboli , ha segnato un punto di arrivo nella nostra letteratura ed ha varcato le soglie delle Alpi per il valore intrinseco dell’opera stessa.
Medico, pittore, intellettuale che gravitava attorno al gruppo torinese anche per la grande amicizia che lo legava a Gobetti, si scagliò con intuito magistrale contro la politica del «futurismo» nel quale vide una forma retorica servile e facinorosa che si ricopriva di modernità senza per altro esserlo o aver – quantomeno – il coraggio di andare sino al fondo delle cose.
La sua vita (morì a Roma nel 1975) fu all’insegna della coerenza: fu cofondatore della formazione azionista «Giustizia e Libertà», partecipò alla Resistenza e più volte imprigionato, esule o al confino infertogli dal regime fascista.
Cristo si è fermato ad Eboli , scritto a Firenze tra il 1943 ed il 1944, non è la sua prima opera né l’ultima ma fu certamente la migliore.
Ovviamente per i contenuti del libro, o come un noto scrittore del Sud ha voluto appuntare «...crudele memoriale dei nostri paesi» (R. Scotellaro), apparve solo nel 1945, dopo la Liberazione.
Sono, in tale libro, raccontate le vicende dello scrittore al confino, in un paese lucano (Albiano nel racconto diventa Gagliano). Ivi è rappresentata la vita di tale gente abbandonata dal progresso, dalla civiltà, alle prese con la miseria quotidiana che sono l’unica realtà. È una disamina terribile in quanto drammatica di un mancato Risorgimento.
Cristo è il simbolo della civiltà, del progresso, della giustizia, ma qui la ragione che dovrebbe unire tutti i concetti suddetti è estranea, c’è desolazione e dolore in tali uomini bruciati nell’animo e nelle loro speranze [ripensano i più anziani, nel racconto leviano, ai «banditi» che forse solo loro, sebbene con la protesta anarcoide, riuscivano a portare un alito di giustizia].
È un romanzo che pur esulando dagli schemi, dagli “ismi”, si suole chiamare “neorealista”, ma come abbiamo detto Cristo si è fermato ad Eboli si svolge in una relazione costante dell’autore con le “cose”, e tale relazione è l’amore verso questa gente sofferente , è la simpatia o meglio, empatia , che si coglie in codeste intense pagine, per non parlare dell’acutezza psicologica e degli usi e costumi dei personaggi. Li sentiamo veri, palpitanti e i loro problemi sono i nostri, li facciamo nostri.
Ciò che pare più rilevante in questo vero capolavoro è l’autentica dimensione di vera umanità che sprigiona l’uomo proprio nella sua semplicità, intesa nell’accezione più positiva.
È tale tessuto originario della coscienza che, oltre alle migliaia di ragioni presenti (sociali, economiche, etniche, antropiche), colpisce ancor oggi. Impegno civico nel senso più alto e la forza dell’amore per l’uomo da riscattare da ogni sopruso e soverchieria per un vero rinnovamento è il messaggio che Levi ci dà in queste sentite pagine, pulite come l’affetto sincero e disinteressato che l’Autore prova verso tale gente che non vede ex-cathedra ma si identifica con la loro storia e la loro sorte perché l’interesse del torinese Levi è questo: la dignitas intangibile dell’uomo a cui si deve la massima reverenza. È la compartecipazione autentica non di sapore aristocratico dell’intellettuale con questo variegato mondo che ancor oggi rende viva e palpitante la sua narrazione priva di preconcetti e pregiudizi di sorta. Ciò che farà rimanere attuale l’Opera di Carlo Levi è quel suo continuo trasudare Amore maiuscolo che troviamo in ogni pagina, amore per l’uomo e per una fattiva fratellanza e rispetto dei suoi diritti inalienabili.