Carlo Bo nasce a Sestri levante nel 1911, è considerato il più grande critico letterario del novecento per la capacità di evidenziare al di là dei propri condizionamenti ideologici e culturali, l’anima universale della scrittura. In uno sforzo di comprensione storica Carlo Bo, infatti, parlando degli autori abruzzesi, non giudica secondo propri principi di estetica, ma ponendo le opere nel proprio contesto temporale-spaziale, ne evidenzia il rapporto con i destinatari.
Del resto la letteratura serve alla vita pratica e non solo alla comprensione dei fatti. Nella ricerca erudita come esperienza di lavoro metodologico Carlo Bo ha compreso che ogni autore continua a trasformare la società se comunica con le nuove generazioni.
Solo rispondendo ai bisogni esistenziali connessi ai bisogni fondamentali ed ai valori civili ed etici la narrazione, sia in versi che in prosa, diventa alternativa feconda e utile alla trasformazione della comunità. A mio avviso, esempio edificante della sua capacità di leggere senza schemi mentali ed esistenziali è evidenziata in modo particolare nella sua critica a personalità completamente diverse come quella di Gabriele D’Annunzio e quella di Ignazio Silone. Entrambi gli autori sono stati funzionali alla presa di coscienza del periodo storico vissuto anche se ognuno a suo modo e rivolto ad un pubblico diverso. Come dice Umberto Eco, la lettura non è finalizzata solo ad un arricchimento erudito e nozionisticamente teorico, ma è soprattutto educazione delle emozioni e quindi dei comportamenti. D’annunzio e Silone ancora parlano ai giovani perché hanno raccontato in modo autentico e conforme al proprio vissuto le fatiche, le scommesse, i dissensi, le lotte e i successi del loro mondo concreto. Carlo Bo riesce nei suoi studi a raccogliere come preziosi quei frammenti di umanità e bellezza che ancora oggi troviamo in Gabriele e Silone.
Lasciatemi ora, dopo questa breve riflessione, illustrare come Carlo Bo, a cui è titolata la facoltà di Magistero dell’Università di Urbino, consideri l’importanza sociale e il linguaggio formale dei due scrittori abruzzesi.
A tal proposito, notevole è il contributo di Carlo Bo che definì “Dannunziana” l’epoca tra gli inizi del 1900 e il 1920, considerando D’Annunzio un abilissimo persuasore occulto e sagace manipolatore di codici espressivi a tal punto che, dotato di una straordinaria capacità di adattarsi alle mode interpretandole in termini originali, il poeta soldato sempre assai abile nel gestire il proprio mito, seppe intuire le potenzialità dei nascenti mezzi di comunicazione di massa che fornirono al suo narcisismo gli strumenti per proporsi come “mito” nella vita e nella letteratura, influenzando la politica e la cultura degli italiani del suo tempo dando origine a quell’atteggiamento pragmatico e spirituale del novecento. Per rendere il senso che la spiritualità prevale sulla caducità umana Carlo disse:” Vale la pena ricordare che i giovani che sono partiti per la guerra del Quindici si portavano dietro le opere di Gabriele D’Annunzio così come vent’anni dopo sarebbero andati al fronte con le poesie di Eugenio Montale”.
Anche di Fontamara, il capolavoro di Silone, tradotto in moltissime lingue, durante la guerra, nel 1942, fu stampata a Londra un’edizione speciale ad opera dell’editore Jonathan Cape per essere distribuita gratuitamente ai prigionieri di guerra italiani in mano agli anglo-americani. Ancora una volta un esempio pratico del valore esistenziale della letteratura che resta talvolta l’unica capace di dare senso alla vita anche in situazioni tragicamente insostenibili.
Carlo Bo, fedele alla sua teoria, considera la poetica di Silone “L’alternativa umana”. Dalle sue recensioni ai tre romanzi dell’esilio (Fontamara- Vino e Pane-Il seme sotto la neve), infatti, trae gli elementi critici per evidenziare nei meccanismi narrativi siloniani una possibilità di umana coesistenza dell’uomo sulla terra: “Gli scrittori non possono diventare funzionari statali o parastatali: essi appartengono all’uomo e alla società e non alle istituzioni”. La perenne attualità di Silone può, pertanto, a mio parere, essere riassunta nelle parole di Pietro Spina, protagonista del “Seme sotto la neve”, libro che l’autore considera il più importante e l’unico di cui talvolta osa rileggere dei brani: “Ho rappresentato i conflitti spirituali di un rivoluzionario in cui si agitano tutti i problemi della sua epoca”.
Concludendo non possiamo che ringraziare tutta quella critica letteraria che ha reso gli autori regionali come Silone e D’Annunzio, figure letterarie di livello internazionale che tanto lustro, come direbbe Benedetto Croce, hanno dato a questo territorio ricco di storia, arte e bellezza.