Gli undici racconti contenuti nel libro di Roberto Cipolloni, con sensibilità poetica, costituiscono la sua “autobiografia” più intima rivelandoci con umiltà i piccoli grandi misteri della vita. La narrazione dei suoi stati d’animo si dipana davanti al fruitore scorrevole ed empatica per farsi guida alla scoperta di quelle verità semplici ma assolute che non sempre siamo in grado di cogliere. Certamente l’autore condividerebbe la frase di T.S. Eliot: “Fare le cose utili, dire le cose coraggiose, contemplare le cose belle: ecco quanto basta per la vita di un uomo”.
Pertanto dove non è lui presente, direttamente o indirettamente, come protagonista si evince la presenza di storie vissute nella regione dei parchi che raccontano i colori: verde-grigio delle alberature, bianco naturale e freddo della neve, giallo-arancio della genziana, il celeste del velo della Madonna nelle processioni e il rosso del sugo della nonna.
Nello scorrere delle pagine il cromatismo è sostituito dai suoni che sussurrati bisbigliano nuovi mondi. I colori Sono evocati da mormorii che si fanno parole ricche di significato mentre le sensazioni visive trasmutano in quelle uditive.
Ogni capitolo è un nuovo pezzo del grande mosaico dell’esperienza che l’autore cerca di ricomporre con l’esercizio della scrittura mirata all’interiorizzazione dei momenti salienti del suo ”essere” e nel contempo alla condivisione con i lettori. L’oggettività dei fatti, che rappresenta il quadro concreto delle azioni, si intreccia con le descrizioni di luoghi e personaggi. Sono proprio questi ultimi a costituire spesso la parte più significativa del testo. Sogni e problemi, paure e speranze vengono riportati attraverso lo sguardo di chi li ha vissuti ma anche da persone che ha incon-trato come parenti, amici e conoscenti.
Come accade nei romanzi di formazione, attraverso il ricordo di eventi vissuti, dei sentimenti provati, naturalmente dal proprio punto di vista, Roberto, ripercorre le tappe delle scelte, partendo dall’adolescenza in uno scenario agro-pastorale. Sono proprio i primi interrogativi su di sé, sul cambiamento fisico e psicologico che sta affrontando, sui rapporti con i familiari che gli consentono di farsi strada nel mondo degli adulti.
Quest’ultimo è temuto dall’autore che vede nella vita dei paesani “grandi” un’irrinunciabile limitazione della propria crescita futura. Nell’affrontare con spirito critico e talvolta ribelle l’avvenire, il personaggio porta in anticipo il lutto del suo passato allontanandosi dagli affetti e da un destino già prefigurato: “la storia del sudore e della terra bassa non mi andava giù (…) che poi io l’avevo sempre detto: quella di campagna, tutti sudati, zozzi… proprio non era per me.” Continuando nella narrazione: “Ma addò sì scito? dicevano gli altri e avevano pure mezza ragione, ma non è che siamo tutti destinati ai posti che ci fanno nascere. Cioè non è che siccome uno è venuto al mondo dove le case confinano con le stalle deve per forza sentirsi parte di quella cosa lì”.
Anche gli accadimenti storici come la liberazione dal nazi-fascismo, le rappresaglie e la fame del dopoguerra, le requisitorie dei tedeschi si fanno nell’autore pretesto per esprimere la volontà di costruire un avvenire nuovo all’insegna della libertà di espressione: “Chè c’era la guerra, si, ma le fertili menti contadine sapevano ancora distinguere il buono dal cattivo, la brava gente. Così dopo mesi di paura… ora toccava a loro poter raccontare la fuga dai campi dei tedeschi”.
Cipollone, quando si rivolge alla gente semplice del suo paese, usa parole tenere e gentili per descrivere “Il cuore grande di quei contadini fatti di pietà cristiana e di poca scuola”. Tuttavia nel parlare dell’anticonformismo dei giovani afferma: “Per me i libri erano una buona scusa, non che ne fossi tanto attratto, però m’avevano sempre aiutato a tenere lontano l’odore di stabbio e a immaginare qualcosa di più grande”. Il soggiorno a Lione e poi a Firenze, Roma, e infine l’università a Milano formano un uomo “emancipato” che pian piano da “cafone rimutato” si fa “cittadino”. Nei centri urbani “I palazzi a tre piani con l’intonaco color pesca e i balconi tutti uguali” superando i pregiudizi, in un conformismo democratico, costruiscano per il personaggio un’architettura sociale forgiata all’impegno che riscatta e alla produzione tecnologica e moderna. Eppure, a mio avviso, la centralità significativa dell’intero libro è nell’identificazione del protagonista nei balconi di città che, proprio come lui, pur essendo tutti uguali sono in realtà ognuno diverso a suo modo. Ancora una volta le cose si fanno simboli dell’animo situato a metà strada: ”Come gli anni spaccati in due: 19 sui monti con Annette e 19 in questa parte di quasi Europa”.
Se all’inizio scisso tra due mondi pensa di abbandonare quello più vecchio, alla fine della raccolta il protagonista si accorge che entrambe le visioni sono fondamentali all’equilibrio della sua personalità. Finalmente libero da tutto ciò che è superfluo si pone l’interrogativo più difficile: Cosa conta davvero nelle nostre vite? Cosa ci rende felici?
Come sosteneva Italo Calvino: Le cose che la letteratura può insegnarci sono poche ma insostituibili (…) cose necessarie e difficili.
Implicito, nel considerare “ali” e “radici” fondamentali per l’identità, è il riferimento a Cesare Pavese: “Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti” (La luna e i falò).
L’autore mette in bocca al personaggio tornato nel luogo d’origine la saggezza del clochard: “Quando Felice usava quella voce sporca di tabacco e di strada ti apriva il mondo che sta dietro al visibile, ed era facile credere che venisse proprio da lì, da una specie di posto delle cose vere e non di conformismi facili”. Ed ora alla fine delle sue fatiche letterarie Roberto Cipolloni rivela a noi lettori, come perla di saggezza, l’insegnamento di Felice: “Tu sei tutti quelli che ti hanno attraversato, anche solo con una frase, e anche tu hai perso ogni volta un pezzo di te per essere una storia in più”.
È ancora Calvino in uno dei suoi ultimi racconti a narrare di un re che si mette in ascolto del mondo. Anche i racconti di questo libro, costruiti intorno ad una storia centrale, nel dare senso alle altre chiedono di essere ascoltate. Se un libro, anche se sembra muto, ha sempre bisogno di una voce per la tessitura della pagina scritta, leggere, anche in modo silenzioso queste pagine, significa filtrare emozioni e sensazioni che in qualche modo ci appartengono.