L’uomo moderno vive l’alienazione di una società in cui si afferma la logica dell’apparire, che promuove fenomeni come la massificazione, l’appiattimento sociale e culturale, la rinuncia all’interiorità, ai sentimenti e alle emozioni, manipolate, contraffatte, costruite. Non ci interessa la vera essenza delle cose, ma solo e soltanto l’apparire. Ci adoperiamo per costruire la nostra immagine ad ogni costo, perché tutto quello che deve emergere di noi è quello che in realtà vogliamo dimostrare di essere.
Essere o apparire dunque?
C’è una differenza sostanziale: l’essere è l’identità della persona, la sua interiorità, la sua anima; l’apparire è il mostrarsi agli altri.
La risposta nasce da una generalità di timori. Il mondo ci percepisce, ci considera e ci giudica da come ci muoviamo, da come parliamo e da tutto ciò che facciamo. L’apparenza è il fondamento di quel che sappiamo degli altri e di ciò che gli altri sanno di noi; è la condivisione mediatica della comunicazione.
Attraverso l’essere esprimiamo dunque la nostra identità, ma vivendo di relazioni anche l’apparire può essere considerata una manifestazione necessaria. Essere accettati, ammessi, legittimati in un determinato contesto, obbliga a muoversi secondo schemi ben definiti che accettiamo per convenienza.
Voler apparire per ciò che non siamo, è dunque una patologia della modernità, implicita del “mettersi in mostra”, in cui la manipolazione della propria interiorità è la falsità che oscura la realtà, che ci trasforma in maschere, che ci priva del coraggio di essere se stessi! Eppure dovremmo essere sempre autentici, vivere quotidianamente quella parte di noi con la quale ci rapportiamo continuamente, per relazionarci con gli altri senza complessi di inferiorità, consapevoli della ricchezza che abbiamo dentro, disciplinando consapevolmente, attraverso una costante autocritica, il nostro modo di porci. Seguire insomma il nostro orientamento interiore senza tante lucine, che si spengono in fretta per non lasciar traccia.
Ognuno di noi “è” oppure “appare” come gli altri ci
vedono o come noi stesso ci vediamo; tanti modi
di apparire diversi tra loro, nessuno dei quali però
è più vero degli altri
Certo è più comodo, più interessante, più gratificante indossare una immagine che non sia la nostra; mostrare la propria con i suoi difetti e le sue fragilità è sicuramente sconveniente. Ma è come un abito di taglia superiore alla nostra: calza male. È la menzogna l’artefice del grande inganno che giustifica tutto, legittimata per guadagnarci un posto in una società che ci giudica. D’altronde “le apparenze contano, e tutti lo sappiamo”, perché tutti comunichiamo tramite le apparenze, esprimendo e rappresentando ciò che siamo nello spazio intorno a noi e interpretando, come attori sul palcoscenico, l’immagine con la quale gli altri a loro volta ci disegnano.
Un pensiero filosofico pirandelliano se vogliamo, che parte però dall’analisi delle vanità e del prestigio (dal latino prestigium, cioè artificio, fallacia, inganno, realtà illusoria che seduce), di quel mondo effimero in cui rientrano la fama, il successo, l’arrivismo in cerca di notorietà, l’esibizionismo, che dominano la nostra vita nel quotidiano, talvolta in modo grottesco. Il fatto stesso di vivere in società condanna l’uomo, secondo Pirandello, a non essere mai se stesso, a non vivere come vorrebbe, ma come gli altri si aspettano che sia.
L’uomo è un essere sociale, ha bisogno di essere accettato, amato e stimato, l’inversione di tendenza può essere attuata con il riscoprire tutto questo ed accettarlo.
Il vero potere dell’uomo dunque, è nell’essere non nell’apparire. Valgo perché sono, non perché appaio.
Secondo José Saramago, premio Nobel per la letteratura, l’umanità non vive una crisi economica, ma una crisi morale, una malinconica dissoluzione dell’Io nella dimensione e nel nome dell’apparenza. È un lascito spirituale questa sua dichiarazione, ad una civiltà sotto certi aspetti in declino, su cui vale la pena riflettere.