La letteratura orfica – molto tarda che riprende da quella originaria – comprende leggende sacre, in cui si espone il si-stema mistico – teologico dell’Orfismo: misteri o riti, i Vaticinii, Inni, Canti in onore di Dioniso, e un poema sulle virtù occulte delle pietre o Litici.
Argonautici e Inni sono ormai e definitivamente, come del resto i succitati Litici, da datare in età ellenistica come in genere tutto citato sopra. Comunque il culto di Orfeo è antichissimo e risalente, secondo Onomacrito, almeno al VI secolo a.C. Solamente la Poesia Orfica è davvero la testimonianza più attendibile e frutto dell’Orfismo più autentico così come la creazione di Phanes (anche Fanes o Fanete), la divinità dai due sessi.
Ma non ci addentreremo per ragioni strutturali nel seguente saggio a tale culto in maniera dettagliata anche se affascinante. Il mito di Orfeo divenne tanto famoso da interessare, tra i tanti, anche Virgilio, il più noto autore della Latinità (vedi a tal proposito il IV libro delle Georgiche) ed Ovidio (Le Metamorfosi). Per gli Orfici sembra che il Tempo (Chrónos, «il sempre giovane») assieme a Zeus, fosse il principio di ogni cosa. Da qui la credenza del Grande Anno del Mondo che è strettamente legato ai cicli cosmici (palingenesi). Ovvero ogni cosa si ripete ciclicamente e tale incessante ripetersi è dominato da Ananke (necessità) o legge che presiede a sua volta il Tempo e quindi la vita dell'Universo.
Questo «eterno ritorno» o palingenesi ha scopo catartico, purificatore: c'è il riscatto dal male. È una rinascita tipica che ritroviamo nei riti.
In effetti questa concezione risale al mito della lotta tra Zeus e i Titani a lui ribelli. Dalle loro ceneri – quelle dei giganti ribellatisi a Zeus al quale avevano divorato il figlio Dioniso – Zagreo – sarebbe nato l’uomo che ha qualcosa di divino (elemento dionisiaco) e qualcosa di malvagio (corpo). Un dualismo pertanto tra Spiritualità (psyché) e Corporeità (soma). Per molti il corpo sarà prigione del-l’anima, ciò che custodisce l’anima. Tradizione dualistica che verrà ripresa nella storia del pensiero filosofico ed accentuata in specie da Platone.
Con la metempsicosi avverrebbe il passaggio della spiritualità (anima) da un corpo all'altro. La lotta tra Bene e Male è un principio unificatore e meno “ingenuo” del politeismo. Morale, religione, cosmogonia si legano in questo mistero, che, ripetiamo, deriva dalla radice sanscrita «my» ov-vero “io taccio, non vedo“. Si cerca qui la vera essenza del-l’uomo quindi tale mistero si di-stacca dalla Teogonia di Esiodo volta invece alla ricerca razionale degli enigmi della Natura (Phýsis) – tramite la poesia e il mito – nonché alle condizioni sociali del suo periodo.
Altro mistero che merita di esser menzionato è quello di Eleusi, città tra Atene e Corinto. Lì sorgeva il tempio di Demetra. Vi si facevano celebrazioni annuali che promettevano la certezza di un altro mondo agli iniziati che vi partecipavano: si onoravano Demetra e la figlia Persefone con cerimoniali segreti. Le feste eleusine di marzo si tenevano per commemorare Persefone che ritornava a dar inizio alla prima-vera (abbondanza, fecondità) e così si liberava da Plutone o Ade, dio della morte, degli inferi.
Era Zeus che liberava Persefone e la restituiva alla madre. Il significato è chiaro: Ade o Plutone, la brutta stagione mentre il ritorno di Persefone era l’inizio della vitalità della Terra (primavera).
Significato d’alternanza delle stagioni (regolarità ciclica biologica) e significato spirituale (le forze della fecondità e l’aldilà).
La vita che ritorna con prepotenza dal soggiorno lugubre di Ade è messaggio morale e assieme cosmologico e fisico. La vita, la sua forza, prevale sulla morte. Il principio unico anche in tale Mi-stero eleusino – dionisiaco è assieme spirituale ed ordinatore del cosmo. Certo la sfrenatezza dei seguaci di Dioniso è in fondo appropriarsi del Mistero Grandioso che nasconde la Vita nella sua intima essenza, ed anche una valvola per sfogare l'aggressività “nell'estasi dei sensi e trovare nella follia collettiva la sapienza”. (cfr. G. Colli, La sapienza greca, vol. I, Milano 1995).
Nel rito, e in tutte le celebrazioni festive, si rendono concreti e si riportano alla memoria i ricordi della tradizione, come giustamente aveva messo in luce l’etnologo Ernesto de Martino.
L’uomo religioso affronta, per tale, i momenti critici della sua esistenza grazie al rito, che nasconde il sacer. In effetti davanti alla morte o alla nascita il rito è, con la sua storicità e tradizione, garante di essere sempre identico a sé stesso. Émile Durkheim afferma che il rito davanti all’esistenza non solo ci dà identità bensì ci inserisce nella comunità.
Ogni rito accompagna sempre un’azione, anche la più comune: dal cibarsi all’atto sessuale. Bori, un antropologo italiano, ammette nella ritualità anche le nevrosi, di cui anche Freud si occuperà in particolare nella sua opera, in particolare quella del 1906.
Queste sono realtà di base fon-damentali che comportano rischi e spostano il nostro baricentro. Il rito, ritornando al nostro de Mar-tino, ha una funzione difensiva, cioè tende ad assolvere quelle mancanze o lutti, incoraggiando l’individuo nei momenti più bui e tristi dell’esistenza (cfr. E. de Martino, Sud e magia).
Questi momenti bui o di crisi vengono superati dal credere nei riti, in quanto per l’etnologo napoletano s’avverte l’essere: il soggetto come crisi della presenza. Le vicende umane o i disastri della natura si scontrano con il soggetto e viene meno il suo progetto di vita.
Per E. de Martino l’uomo si sente minacciato nel suo Dasein, (esserci o essere presenza-nel- mondo) e il rito – in tal senso – lo aiuta a superare il baratro che gli si pone davanti.
Quindi il rito ricostruisce non solo il sé dell’individuo ma lo reintegra nella società o meglio, nel suo gruppo sociale.